Frane, valanghe, tempeste, inondazioni hanno causato in Italia, dal 2003 al 2020, 378 morti. Questi decessi rappresentano solo la punta dell’iceberg degli effetti che questi fenomeni hanno sulle popolazioni, ma la mortalità è l’unico indicatore sanitario immediatamente disponibile per tutti i Comuni italiani. Contare il numero di vittime degli eventi meteorologici e idrogeologici estremi è importante per capire in quali aree del territorio, delle Regioni, si rischia di più. Questo è quello che emerge da uno studio dell’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) pubblicato sulla rivista Safety in Extreme Enviroment.

«In base al numero di decessi rilevati a livello regionale, nonché al numero di Comuni coinvolti, il Trentino-Alto Adige (73 decessi) e la Lombardia (55), seguite da Sicilia (35), Piemonte (34), Veneto (29), Abruzzo (24) ed Emilia-Romagna (14) rappresentano le Regioni maggiormente a rischio. A queste va aggiunta la Val d’Aosta, dove si registra un alto rapporto di decessi rispetto alla popolazione», afferma Claudia Dalmastri, ricercatrice del Laboratorio Salute e Ambiente dell’Enea.

«La maggior parte dei decessi per eventi estremi è dovuta a frane e valanghe e quindi le Regioni a più alto rischio sono quelle montuose», ricorda Dalmastri. «In particolare, il 50 per cento dei comuni colpiti si trova in località montane, secondo il livello altimetrico Istat, e questo dato evidenzia come la mortalità possa essere in parte collegata alla fragilità intrinseca di alcune tipologie di territori, suffragata anche dai dati dell’Ispra».

Claudia Dalmastri

Come riportato dall’EPA (l’Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti), l’età elevata degli abitanti rappresenta un fattore di rischio in caso di eventi estremi, in particolare dovuta alla limitata mobilità per molti anziani. Quindi, «l’incremento d’età della popolazione italiana – secondo l’Istat la percentuale di over 65 è passata dal 16 per cento nel 2001 al 24 per cento nel 2023 – è sicuramente un aspetto da tenere in considerazione», prosegue la ricercatrice dell’Enea.

«Inoltre, applicando la classificazione Eurostat dei Comuni in base al livello di urbanizzazione, intesa come densità di popolazione, è stato messo in evidenza che il cinquanta per cento dei Comuni colpiti si trova in località a bassa densità abitativa. Pertanto, si può supporre», continua Dalmastri, «che la minore presenza di presidi sanitari in zone scarsamente popolate, la minore presenza di infrastrutture per la prevenzione, oltre a possibili difficoltà per i soccorsi nel raggiungerle se più isolate possano costituire ulteriori elementi di rischio».

Ovviamente non è possibile eliminare gli eventi estremi, ma agendo sul contenimento dei cambiamenti climatici se ne contrasterebbe l’ulteriore, previsto, incremento di frequenza e intensità che già stiamo osservando. «Oggi la scienza fornisce gli strumenti per conoscere e valutare quali sono le zone italiane a maggior rischio per la popolazione e quindi stabilire le priorità nel destinare le risorse finanziarie, definire le misure di allerta e le azioni di prevenzione e mitigazione», conclude Dalmastri.

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