Con l’ascesa di Vladimir Putin al Cremlino, nel 1999, la Russia cominciò subito a promuovere una certa idea di Nazione e nazionalismo. All’inizio sembrava un processo quasi casuale, ma a posteriori si può affermare che il Grande Orso siberiano decide di volgere le spalle all’Occidente fin dai primi giorni dall’avvento presidenziale dell’ex KGB .

D’altronde Putin era inizialmente sostenuto, in questa azione, da buona parte dell’opinione pubblica. C’era appena stata la guerra in Kosovo, che molti hanno a Mosca avevano preso malissimo (anche a causa dei bombardamenti NATO contro i “fratelli slavi” della Serbia) e soprattutto stava terminando un decennio, quello degli anni Novanta del secolo scorso, caratterizzato da una grave crisi economica e durante il quale la vita dei russi era stata letteralmente traumatizzata per la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica e del sistema comunista.

Così, pian piano, si dà una svolta nella narrazione. L’Occidente, visto fino a quel momento come un modello, comincia a diventare il nemico da combattere”. La Russia viene raccontata come l’ultimo baluardo del Cristianesimo e di certi valori e costumi che il resto dell’Europa e del Nord-America ha ormai dimenticato. Si formano soprattutto le generazioni più giovani con l’utilizzo dei nuovi media (che con l’avvento successivo dei social diventeranno ancora più invasivi), della musica (attraverso i testi e gli atteggiamenti di pop-star locali assoldate allo scopo) e soprattutto lo stravolgimento dei programmi scolastici.

Uno shock mai metabolizzato

Putin non ha mai nascosto le sue nostalgie sovietiche. Anzi, ha definito il crollo dell’URSS come la “peggior catastrofe” del Novecento. Un’opinione che evidentemente è stata largamente condivisa da molti suoi connazionali. Con il crollo del muro di Berlino e lo scioglimento dell’Unione Sovietica in pochissimo tempo era invece cambiato tutto per i cittadini russi: il rapporto con il lavoro, lo Stato, i soldi, la famiglia. Ogni più piccolo segmento della vita quotidiana delle persone era stato stravolto e non furono pochi a rimpiangere il sistema economico-politico precedente, che pur con tutti i suoi innumerevoli difetti (a cominciare dalla mancanza di libertà) dava comunque delle certezze a una popolazione abituata a vivere in quel modo da sempre.

È stato uno spostamento di cui forse ancora fatichiamo (e sicuramente anche in Russia faticano) a capire la portata. Anche perché a differenza degli altri Paesi appartenenti all’Unione Sovietica – che arrivavano da un lungo periodo di colonizzazione esterna e nel frattempo avevano anche cominciato a costruire una propria visione di futuro che guardava ad Occidente – la Russia ha faticato molto a non guardarsi indietro.

Perché aveva comunque un passato di nazionalismo molto forte e doveva trovare un modo per far pace con la propria idea di imperialismo (intesa come tendenza a dominare e inglobare le altre culture e nazioni), tutt’altro che sepolta nell’animo e che risulta particolarmente difficile da scorporare rispetto all’idea di Nazione. E così negli stessi anni in cui l’Ucraina, la Lituania, la Georgia o i Paesi dell’Asia centrale come l’Uzbekistan cominciavano, finalmente, a guardare al futuro, la Russia pian piano ha cominciato il suo inesorabile ritorno al passato.

Da allora, da quando Putin è salito al potere, sono passati 25 anni. 33 da quando è finita l’Unione Sovietica. E da allora il mantra del Presidente è sempre stato “occhio, che senza di me si torna agli anni Novanta”. Anni che evidentemente per lui (e per molti altri) sono da considerare solo come un incubo, “buttando però in un colpo solo l’acqua sporca e anche il bambino”.

In effetti quel decennio fu un periodo caratterizzato da un tasso elevato di criminalità, corruzione, povertà e disagio. Anni in cui è aumentato a dismisura il divario fra i ricchi e i poveri, che sono diventati ancora più poveri di quando c’era il Comunismo. E già all’epoca non se la passavano bene, figuriamoci dopo. Ma sono stati, quelli, anche anni di grande liberazione culturale, di concerti e musica, di scoperta di un modo di vivere diverso e di un grande senso di libertà che purtroppo non è più tornata. C’è un’intera generazione, oggi, nata negli anni Duemila, che quegli anni Novanta non li ha nemmeno vissuti e che li considera comunque una sorta di mito, una sorta di boccata d’aria fresca e una parentesi fra l’Unione Sovietica e il regime di Putin. Fra un regime e un regime, insomma.

La forza di Putin

Vladimir Putin

La forza di Putin è sempre stata quella di incarnare la figura del russo-medio. Una sorta di ibrido uscito fuori dalla transazione post-sovietica. Da una parte Putin – aiutato anche dalla sua esperienza nel KGB a Berlino – capisce chiaramente che l’Unione Sovietica ha fallito economicamente. Dall’altra, come molti suoi cittadini, si ritrova smarrito dal crollo dell’URSS. Quel trauma collettivo, però, lo porta  – grazie a Eltsin che lo incorona – al vertice della Nazione e così decide di instaurare una sorta di regime “post-traumatico”. Un trauma che inconsciamente continua a riprodurre. D’altronde risulta inevitabile se in un Paese di 150 milioni di abitanti la transizione post-comunista viene guidata da un dichiarato nostalgico del periodo sovietico.

Il sistema che Putin costruisce è più verticale, burocratizzato e non delegato di quanto non lo fosse ai tempi dell’Unione Sovietica. Lui deve vedere tutto e decidere su tutto. E il suo sistema verticale è composto da tanti piccoli Putin, che si riflettono sui sottoposti, fino ai confini della steppa russa. Un preside, un primario, un sindaco riproducono localmente la piccola piramide di cui si compone il sistema più grande.

Un’opposizione inesistente

Quei pochi che seguivano Navalny sono ormai finiti tutti in carcere. D’altronde tutto il 2021 è stato all’insegna del perseguimento degli oppositori, della chiusura dei giornali, dell’introduzione di nuove leggi ancora più restringenti e vessatorie. Anche in questo caso, con il senno di poi, si può pensare che fosse volutamente dedicato alla preparazione dell’invasione all’Ucraina, coincisa con l’inizio del 2022.

Una opposizione legale, politica e non violenta oggi non appare purtroppo possibile. La morte di Navalny è stata la fine fisica di qualcosa che aveva già avuto una sua fine. Il fatto che molti di coloro che erano fuori dal carcere continuassero a serbare speranze in una persona che era – letteralmente – sepolta in una prigione ai confini dell’impero e non il contrario dà plasticamente l’idea di come i russi non siano stati capaci di crerare, al contrario degli Ucraini, il loro Maidan.

Avevano tutto il tempo per fare la loro rivoluzione, quando era possibile farla, prima che venissero varate leggi dittatoriali. Quando, insomma, si poteva ancora andare in piazza senza conseguenze serie. Oggi, per fare un esempio, si rischia l’arresto anche solo a depositare un fiore in un monumento o in un luogo pubblico, ai memoriali delle vittime delle repressioni staliniane.

Putin si sente minacciato da qualunque tipo di dissenso. Ha capito, però, che per la prima volta da quando è al potere deve cominciare a fronteggiare un certo malcontento interno. E non stiamo parlando solo della popolazione, che sta cominciando a pagare anche economicamente la crisi economica. Stiamo parlando anche della maggioranza dei putiniani, che probabilmente si sveglia ogni giorno sperando di sentire al telegiornale la “buona notizia” che lui non c’è più. E questo non perché siano dei ferventi democratici, ma perché con la guerra in corso e le conseguenti sanzioni si impedisce di fatto a questa “cleptocrazia” di godere dei frutti del proprio “disonesto” lavoro.

Manca, però, la capacità di organizzazione orizzontale. Hanno tutti paura di Putin, che ha dimostrato di essere spietato con chiunque, ma hanno anche paura di rimanere senza il loro comandante, che tiene il pugno di ferro e il controllo. Fra di loro non si mettono d’accordo ed è evidente che il sistema putiniano prevede anche un insieme di clan che si azzannano fra di loro, sotto l’occhio vigile dello stesso presidente russo, ben contento di queste divisioni che impediscono di fare fronte comune.

D’altronde lo insegnavano gli antichi Romani: divide et impera.

Cosa accadrà dopo-Putin?

Sotto il peso della guerra, delle sanzioni, delle ruberie e della propria inefficienza Putin prima o poi cadrà. La speranza è che a infliggergli l’ultimo colpo sia un’avanzata dell’Ucraina nella guerra, perché far perdere la Russia è un modo per salvare la stessa Russia. L’ipotesi più realistica, però, rimane quella di un “colpo di palazzo”. Come già avvenuto nella storia di questa Nazione.

All’epoca della morte di Stalin, però, c’era un partito, una struttura di potere molto forte, con dei pesi e contrappesi molto forti. Che non a caso incoronarono Krushev, delfino di Stalin ma allo stesso tempo in grado di prendere le distanze dal suo mentore. Oggi, invece, c’è un sistema mono-monarchico imperniato solo su Putin, che si potrebbe sgretolare nel momento in cui manca il suo “cardine”.

Si tratta di ricostruire tutto dalle basi. Sarebbe straordinariamente importante la presenza di un’opposizione, che abbia delle idee diverse da quelle al momento al potere. Perché un conto è la presa del potere e la sua gestione tecnica, un conto è la necessità di riformattare tutto e ripartire su nuove basi, più democratiche. In caso contrario il rischio e di tornare ad avere presto un “nuovo Putin”, fra dieci o quindici anni al massimo.

Ci si domanda, però, cosa si farà di quelli che denunciavano i vicini o i bambini per i loro disegni pacifisti o delle madri che hanno spinto i figli ad arruolarsi o, ancora, di quelli che questo regime l’hanno assorbito e introiettato. L’Europa ha saputo concludere la Seconda Guerra Mondiale e la fine del Nazismo con il processo di Norimberga. Ecco, se ce ne fosse uno simile per la Russia si lancerebbe un messaggio a tutto il pianeta. Un processo a Putin e alla sua cricca di oligarchi, ai piccoli esecutori-soldati, ai dirigenti e a tutti coloro che hanno favorito questo regime direbbe che non va bene invadere un Paese pacifico, non va bene bombardare le città e le comunità civili, non va bene usare lo stupro come arma.

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