Be yourself, no matter what they say” cantava a metà degli anni Ottanta, in una sua celebre hit, Matthew Gordon Sumner, in arte Sting. Un invito fin troppo chiaro a essere se stessi e a badar poco alle opinioni altrui. Un inno all’anticonformismo e al cercare di mantenere sempre fede al proprio modo di essere, costi quel che costi, in un’epoca in cui essere se stessi non era facile.

Ci ha ricordato (anche) questo brano il sagace monologo teatrale portato in scena al Teatro Romano di Verona ieri sera da Arianna Porcelli Safonov, che per quest’edizione del Festival della Bellezza, di cui è diventata negli ultimi anni una “aficionada”, ha voluto puntare il dito contro la tendenza sempre più diffusa – agevolata anche dai social e dalle nuove tecnologie – all’omologazione e massificazione.

Disgustibus” era infatti il tema prescelto e su gusti e soprattutto disgusti, in effetti, l’attrice e scrittrice italo-russa ha intrattenuto per oltre un’ora e mezza il pubblico veronese, che come sempre, quando arriva lei in città, ha riempito in ogni ordine di posto la platea e i gradoni del teatro in riva all’Adige.

Luoghi comuni e modi di pensare

L’ingresso è stato “di grande effetto”. Arianna – bellissima nel suo lungo abito nero – ha deciso di entrare in scena scendendo proprio i gradini che dall’alto del teatro portano fin giù in platea, fra il pubblico entusiasta che non ha perso l’occasione per stringerle la mano o per fotografarla da vicino. Lei, una volta sul palco, ha subito strappato le prime risate raccontando della difficoltà a scendere quei gradini con le scarpe indossate per l’occasione, che sembravano “petrolio liquido”.

Poi parte la sua invettiva. Che inizia con un lungo elenco di luoghi comuni, magari alcuni un filino esagerati ma – licenza poetica a parte – a ben rifletterci ben più che radicati nel nostro immaginario collettivo: “Ami i gatti? Rimarrai zitella”, “Mangi poco? Sei anoressico”, “Mangi tanto? Grassone!”, “Sei architetto? Sei malato, curati”, “Esci la sera? Ma smettila, hai cinquant’anni”, “Non hai voglia di uscire? Sei depresso”, “Ti piacciono i fumetti? Cresci, matura”, “Ti piace Zerocalcare? Anche a me, è fichissimo”.

Risate e applausi a scena aperta. Il ghiaccio, ammesso che ci sia mai stato, è già rotto, in pochi secondi. Il pubblico pende dalle sue labbra e lei – sempre sensibile e attenta agli “umori” del suo pubblico – non perde un colpo, proseguendo col suo racconto serrato. Che presto va a parare – ça van sans dire – sugli intellettuali di casa nostra (“che in Italia, a dire il vero, non esistono più da cinquant’anni”), o protointellettuali o, ancora, pseudointellettuali che dir si voglia, lanciando bordate – per par condicio – a destra e a manca. Da Vespa a Mentana, passando per Feltri o noti conduttori televisivi (“come siamo potuti finire da Lord Byron ad Amadeus?”), la decadenza culturale del Belpaese è fin troppo evidente e difficilmente arginabile. Se non con la satira, unico antidoto a quest’andazzo.

Uno scrittore sconosciuto

Quella di Arianna è particolarmente tagliente. Una satira che però oltre a lanciare “stoccate” sa essere anche propositiva. Non saranno stati pochi infatti, fra coloro che hanno assistito al suo spettacolo in riva all’Adige, ad aver cercato su Google il nome dello scrittore russo Vasilij Rozanov, sconosciuto ai più e abbondantemente citato nel corso della serata dalla Safonov (che in tempi certamente non semplici ha il coraggio e l’orgoglio di rimarcare anche più volte le sue origini, metà italiane e metà russe, appunto).

Vasilij Vasil’evič Rozanov

Rozanov, attivo nella seconda parte dell’Ottocento e nei primi due decenni del Novecento, fu un personaggio contraddittorio: fra idee reazionarie e contrarie alla Rivoluzione Russa ebbe almeno il grande merito di non omologarsi al mainstream dell’epoca, a non sottostare alle regole anche letterarie per avere successo (e infatti non lo ha avuto, almeno quella postuma) e soprattutto a dire “spesso e volentieri” (circonlocuzione che Arianna ci segnerebbe con la matita blu, senza pietà) la verità. O almeno quella che considerava la sua verità, anche se poteva essere scomoda al potere di turno, che in quel caso si vendica, inesorabilmente, condannandolo all’oblio. Perché, si sa, “libri e governi non vanno d’accordo”.

Ma in fondo era proprio questo il tema del monologo: non farci condizionare, non farci rubare i nostri gusti, i nostri sogni, le nostre idee. Anche inconsciamente. Perché, ci dice la Safonov, “ricordatevi che non siete l’UNESCO. Non può piacervi tutto”. E in effetti, a ben pensarci, se persino le colline del Valdobbiane e del Prosecco, carine per carità, sono diventate Patrimonio Mondiale dell’Umanità forse qualcosa nel meccanismo si è inceppato.

Inclusività ed esclusitivà

Il monologo, poi vira sul tema dell’esclusione, in un periodo in cui il mantra generale è “l’inclusività”. Si, ti includo ma solo se i tuoi gusti collimano con i miei, altrimenti… Con la coda che dialoga con il mignolo (due elementi ereditati dalla nostra precedente condizione di esseri animali, anche se “non è detto che la nostra umanità sia meglio della nostra animalità”) e soprattutto con i radical chic evocati dai sogni notturni, che la Safonov si diverte spesso a inserire nei suoi spettacoli e che rivelano sempre molto di lei. Quel sogno – una serata da incubo vissuta a casa di una coppia di non-amici fissati con i giochi di società – rappresenta paradossalmente uno dei momenti più concreti di tutta la serata, perché i due vengono descritti perfettamente nel loro particolare modus pensandi, ormai cristallizzato in certe fasce della nostra società.

Potente il finale, con il racconto di un episodio legato ai parchi di Madrid, città cara all’autrice e scrittrice che ha vissuto per un periodo della sua vita proprio nella capitale spagnola, in cui riesce a inserire più elementi e comunità lì ben rappresentate: quella sudamericana, quella rumena e quella italiana. Che hanno caratteristiche simili (“fanno casino, amano il pic nic all’aria aperta e fare a botte dopo la siesta”) e che alla fine si ritrovano a battagliare fra di loro in un epico scontro finale, in cui il radical chic Gianfabio (già protagonista del precedente sogno) viene coinvolto suo malgrado fino ad avere la peggio a causa di un grossolano intervento della polizia, che non fa distinzioni. Un epilogo che trova la soddisfazione di tutto il pubblico presente. E chissà se i tanti Gianfabio, sicuramente presenti fra il pubblico, non si siano almeno in parte riconosciuti nella descrizione e non abbiano magari deciso di rivedere almeno un po’ le priorità della propria vita. O del modo di interagire con il prossimo.

L’occhio della madre

Dopo la conclusione e il lungo applauso finale Arianna, in quello che si può considerare un ipotetico bis, non perde l’occasione di tornare su uno dei tormentoni dei suoi spettacoli: il complicato rapporto con la madre. Personaggio a dir poco epico, che tutti i fan di Arianna vorrebbero conoscere prima o poi, la madre è in questo caso protagonista di uno scontro-incontro al sapor di caramella al liquore con un’altra “madre”, in questo caso “superiora”, responsabile del collegio di suore in cui Arianna, da piccola, era stata spedita (“per la sete di vendetta” della stessa madre).

Motivo dell’incidente diplomatico? La punizione inferta dalla stessa sorella” alla piccola Arianna, che aveva tirato in faccia con violenza al compagno di scuola Daniel. “Lui mezzo italiano, mezzo polacco… io mezza italiana e mezza russa… capite bene che non potevamo andare d’accordo”, spiega. Un’appendice divertente e singolare, che fra ondate di vomito e aggiunge un ulteriore tassello al saggio autobiografico “Io e mia madre” che ci si augura di cuore un giorno la Safonov possa dare alle stampe. Sarebbe di sicuro un successo clamoroso.

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