Tra le pagine della mitologia greca, in una grotta del monte Pelio, possiamo scorgere Chirone, un centauro sapiente, gentile e benevolo, grande esperto dell’arte medica e insegnante perfino di Esculapio, padre della medicina.

Era affetto da piaghe incurabili causate dalla ferita avvelenata provocatagli per errore da Eracle, suo amico. Dopo la sua terza fatica, quella della cattura del cinghiale di Erimanto, Eracle fece visita al centauro Folo il quale gli offrì del vino aprendo la giara dei centauri che si arrabbiarono e si lanciarono contro Eracle che li respinse e ne uccise alcuni; i centauri, per difesa, si rifugiarono nella grotta di Chirone che, ignaro di ciò che stava succedendo, si fece incontro all’amico Eracle nell’istante esatto in cui questo scagliò una freccia che lo andò a colpire per errore. 

Una cura “immortale”

Chirone soffre tremendamente a causa di queste ferite ed è destinato, per tutta la sua immortalità, a prendersene cura. Il contatto con la propria sofferenza dischiude alla conoscenza degli strati più profondi di sé; la ferita si fa feritoia verso il proprio mondo interno. Ascoltando il dolore, provando e riprovando con vari medicamenti, alla ricerca di una soluzione per cicatrizzare le piaghe.

Ed è proprio questo che lo fa diventare un punto di riferimento, un guaritore un po’ diverso rispetto a chi fa uso della sola tecnica da applicare come soluzione immediata del sintomo.

Riesce a prendersi cura di sé e solo così può farlo  anche con gli altri, insegnando loro a non fermarsi sulla ferita, utilizzando esclusivamente una cura da applicare, ma spinge ad entrare in essa e prendersene a propria volta cura (attivando un fattore di guarigione, diventando “medici di sé stessi”) partendo dagli starti più profondi. Chirone è quindi un guaritore ferito. “Sente” la propria ferita per sentire quella degli altri (e talvolta scorgere della propria qualche sfumatura ancora da curare) e, attivando il proprio fattore di guarigione interno, entrando in relazione con la sofferenza del paziente, riesce a costellare in egli il suo, di fattore di guarigione.

Ciò si può tradurre nella presa di responsabilità del proprio processo di cura intesa come compartecipazione allo stesso, più o meno inconscia a seconda del momento terapeutico, e non come una mera, passiva obbedienza ai suggerimenti del terapeuta, considerandolo come unica parte attiva della terapia, affidandogli la guarigione.

Perché ciò accada però è necessario che il terapeuta mantenga il contatto con le debolezze e la malattia.

Il paziente e il terapeuta

Da un punto di vista psicologico, se il paziente ha un terapeuta dentro di sé, nel terapeuta esiste un paziente. Quindi questo sistema “guaritore interno-paziente ferito” deve essere vivo anche nel terapeuta perché non si senta il forte guaritore, al sicuro dalle ferite che riguardano solo i pazienti, povere creature che vivono in un mondo completamente diverso dal suo.

Ha bisogno di un limite, legato alla capacità di lasciar andare l’idea tracotante di potere tutto, sapere tutto e capire tutto; l’idea pericolosissima dell’“Io ti salverò”.

Come trova Chirone un medicamento per sé? Venendo a contatto con il fatto che, forse, non troverà soluzione al proprio dolore nemmeno lungo tutta la propria immortalità. Invoca così Zeus di concedergli un limite. Ed è proprio lì, invece, nel senso del limite, che inizia la vera guarigione.

Spinto da compassione, il padre degli dei gli permette di donare l’immortalità a Prometeo, liberato da Eracle dalle catene della giustizia di Zeus. Quello stesso Prometeo che era andato oltre il limite, sfidando il re dell’Olimpo, sminuendolo con l’inganno.

Zeus, riconoscendo a Prometeo di aver compreso il senso del limite, gli concede la libertà e l’immortalità di Chirone. Gli impone però di indossare, in segno di monito, una corona e un anello forgiato con le catene che lo tenevano legato e un pezzo della roccia sulla quale soffriva mentre un’aquila si nutriva del suo fegato che per trentamila anni si sarebbe rinnovato quotidianamente.

Questo dono concede a Chirone una nuova immortalità: la necessità di ricordarlo per sentire quel limite che permette ogni vero incontro terapeutico. Dovessimo smarrirci, possiamo alzare gli occhi al cielo: lo troveremo nella sua costellazione, accanto proprio a Zeus.

© RIPRODUZIONE RISERVATA