Gli uomini preferiscono le bionde
Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen: la strana alleanza per un'Europa che va al voto. Quale sarà il futuro dell'Unione?
Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen: la strana alleanza per un'Europa che va al voto. Quale sarà il futuro dell'Unione?
Era nell’aria da diversi mesi, gli indizi c’erano tutti e qualche giorno fa il dubbio di molti è diventato realtà. Le due bionde più in vista a Bruxelles sembrano essersi alleate. Durante il dibattito tra i candidati di punta al ruolo di presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen ha detto candidamente che la coalizione tra il PPE dei popolari e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni «è un’opzione reale» in quanto la nostra premier possiederebbe i «tre requisiti fondamentali: è a favore dell’Europa, a favore dello Stato di diritto e contro la Russia di Putin».
Meloni si è in effetti accreditata con forza nelle istituzioni europee, sia come Presidente del partito di destra dei Conservatori e Riformisti Europei, sia personalmente nella mediazione di accordi (si pensi a Tunisia ed Egitto, Paesi in cui le due bionde hanno viaggiato e negoziato in coppia) o sbloccando spiacevoli situazioni, come il veto di Viktor Orbàn nei confronti dell’Ucraina. Dopo il successo di quella chiacchierata con il Presidente ungherese, la CNN parlò di un “Meloni’s moment” ma forse sarebbe meglio contenere l’entusiasmo, almeno finché la premier non avrà svelato tutte le sue carte.
Proviamo a immaginare la conversazione tra Meloni e Orbàn, tra vecchi amiconi, compagni di “vacanze romane” e insieme nella creazione e sviluppo di numerosi think tanks sia a Budapest (Danube Institute, Center for Fundamental Rights, Mathias Corvinus Collegium, per citarne alcuni), sia a Roma, come Nazione Futura, del consigliere personale di Meloni, Francesco Giubilei. Dietro ai nomi altisonanti e talvolta pure ironici, si trovano le migliori menti dell’ideologia che allinea tutti i partiti dell’estrema destra europea.
Non è un segreto: Meloni condivide apertamente la retorica anti-LGBT e le accuse di sostituzione etnica in relazione alle ondate migratorie che vengono sbandierate da Orbàn, così come si è spesso schierata contro le “leggi imposte dall’Europa”. E c’è un pizzico di ungherese nei continui e malcelati attacchi alla libertà di informazione e al sistema giudiziario del nostro Paese. Anche se da quando è prima ministra ha moderato i toni ed evita esternazioni pesanti, è piuttosto ovvio che le sue convinzioni non siano diverse da prima.
Durante l’incontro, Meloni avrà consolato il collega con parole di comprensione per i brutti pregiudizi e la crudeltà della UE nei suoi confronti, lo avrà lisciato proponendo la sua ricetta: se non puoi combatterli, fatteli amici. Sicuramente avrà fatto notare il diverso destino dei “fondi Covid”, elargiti all’Italia dei sorrisoni in gran quantità e bloccati invece all’Ungheria cattiva e illiberale. Forse ci saranno state promesse di esborsi imminenti, e anche coalizioni in ballo, visto che il partito ungherese Fidesz entrerà nei Riformisti dopo le elezioni europee.
Qualcosa dei discorsi di Meloni a Orbàn deve aver colpito anche il PPE di von der Leyen, che prova a usare la stessa tattica. Aprendo a un’alleanza con Fratelli d’Italia (non con i Riformisti tutti, si badi bene) prova a ottenere il suo risultato con il minimo imbarazzo. Chissà se il calcolo politico sarà corretto anche con questa nuova alleanza.
Funzionò nel 2019 quando, con la sorpresa di molti, la tedesca fu eletta presidente della Commissione europea, con il minimo scarto di voti di sempre (nove) e con l’aiuto palese e sbandierato dell’allora premier Giuseppe Conte che rastrellò 14 parlamentari per la votazione a favore. In fondo, dal populismo alla destra estrema il passo è breve e, se i sondaggi danno la destra in forte ascesa, se si rischia seriamente la poltrona, tutto fa brodo – o wüsrtel, insomma.
Vero che splende il sole e si mangia bene ma si sono fatti notare i numerosi viaggi di von der Leyen in Italia, che fosse per l’alluvione, per uno sbarco di migranti o per il convegno sull’Africa. Senza contare tutte le missioni all’estero in cui le due donne più potenti d’Europa (lo si scrive in senso sarcastico, con un sorrisino alla Angela Merkel) si sono trovate a negoziare insieme, una con il sostegno dell’altra.
L’Italia è uno Stato che ha il suo peso in Europa, ha voti utili in Consiglio e in Parlamento. È un Paese industriale importante, con un debito pubblico altrettanto pesante e la mania di non far durare i governi. Questo ci raccontavano i giornali durante tutti gli incontri, che la Presidente rendesse omaggio all’Italia e alla (almeno apparente) conversione europeista della nostra premier.
Ma von der Leyen non pensava a questo, pensava a quei nove voti di scarto, alla fuga di allora dei suoi presunti alleati e al salvataggio in extremis arrivato proprio dal Paese della pizza. Nel dubbio, direbbe Andreotti, meglio averli come amici. Lo stesso pensiero di Meloni che, nell’accettare questa improbabile amicizia, ha molto da guadagnare.
Nella storia recente, Meloni ha dato prova di saper stare in un equilibrio eccezionale tra le sue due personalità politiche: quella che “tra Berlino e Parigi preferisco Visegràd” e quella che si è creata un ruolo di potere all’interno delle istituzioni che definiva “piene di marcio fino al midollo”. Diventata premier ha riposto in un cassetto le foto con Orbàn e si è premurata di mostrare il proprio allineamento a Washington e di far dimenticare di essere la leader di un partito post-fascista.
Fin dalla sua nomina a premier italiano, si è posizionata in Europa come una politica di destra dura ma che sa arrivare al cuore di quelli ancora più a destra. Con lo spostamento dell’asse politico europeo in quella direzione, appare un elemento che diverrà sempre più utile poter gestire nel dibattito sui grandi temi divisivi. Non sorprende che il New York Times parli di “Melonization of Europe”, una sorta di travestimento della UE a sua immagine.
Avrà anche messo l’establishment europeo tranquillo, ma non possiamo credere a una svolta tanto radicale, non in un contesto in cui i confini politici tra centro, centro-destra moderato e destra dura non sono mai stati tanto labili. Meloni si vende come un ponte di comunicazione tra il centro e la destra estrema, come qualcuno in grado di comprendere le ragioni di ognuno e mediare compromessi. Si butta sul mainstream perché ne trae un vantaggio in termini di influenza politica e magari per un posticino esecutivo (è il fantaEuropeo, ragazzi). Ma fino a un certo punto.
Sta evidentemente seguendo la strategia forse sussurrata a Orbàn per convincerlo: entrare nelle istituzioni come una sorta di cavallo di Troia, accreditarsi come alleata, senza però dimenticare i vecchi amici. Da un lato c’è una signora che ha bisogno di tutto l’aiuto possibile per essere rieletta, dall’altro una madre cristiana sfuggente, con una tattica ben delineata e nessuno spazio alle distrazioni.
Una con la cofana bionda che tremola al vento del cambiamento, l’altra con i boccoli dysonati e la cazzimma di usare gli insulti a suo vantaggio. Almeno una delle due è davvero nata per fare politica, ma non sempre questo è un complimento.
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