Attentato di Mosca: sono ancora tante le domande senza risposta
Il massacro del teatro Crocus e il ritorno dell'ISIS, nelle sue varie derivazioni, riaprono scenari che sembravano dimenticati.
Il massacro del teatro Crocus e il ritorno dell'ISIS, nelle sue varie derivazioni, riaprono scenari che sembravano dimenticati.
Sui media internazionali continuano le speculazioni sul massacro avvenuto al teatro Crocus City Hall di Mosca lo scorso marzo.
In mancanza di ulteriori notizie da parte russa, sembra ormai assodato, anche da parte dei servizi segreti occidentali, il fatto che la responsabilita’ dell’attentato vada attribuita all’ISIS, che peraltro l’aveva rivendicata quasi subito, fornendo, a riprova di ciò, una dovizia di particolari sulla sua esecuzione.
Perché l’ISIS avrebbe preso di mira la Russia? La risposta sta nella lotta che Mosca sta conducendo dalla fine degli anni ‘90 contro “soggetti non statuali” che hanno insanguinato la Federazione con molteplici attentati che hanno causato complessivamente quasi un migliaio di vittime civili.
In particolare l’ISIS, sia nella versione “centrale o globale” sia in quella Khorasan, ha rivendicato la paternità dell’attacco, volendo punire la Russia per il ruolo da essa svolto in Siria ed Iraq tra il 2017 e il 2019, quando Mosca contribuì in modo determinante ad annientare il Califfato installatosi nei due Paesi.
Ma esiste una differenza tra le due Organizzazioni? In linea di principio sì, perché l’ISIS globale mira a costituire un Califfato globale, in differenti aree del globo, dal Medio Oriente all’Africa settentrionale, dalla fascia saheliana alla Somalia e alla Nigeria, con cellule più o meno dormienti anche in Europa (in particolare Francia e Belgio).
L’ISIS Provincia del Khorasan, invece, mira a creare un Califfato in Asia Centrale, nella regione del Khorasan appunto, che comprende pezzi di Iran, Afghanistan, Pakistan e altri territori delle ex Repubbliche sovietiche centroasiatiche. La distinzione si è però persa nel tempo ed ora l’azione delle due Organizzazioni tende a sovrapporsi come sta a dimostrare la doppia rivendicazione di cui sopra.
Va però ricordato come delle due la più attiva oggi sia proprio quella del Khorasan, che ha guadagnato in adepti e visibilità negli ultimi tempi, tanto che tra il marzo del 2023 e il marzo di quest’anno le sono stati attribuiti oltre mille attentati con complessive 2.300 vittime. L’ISIS K è particolarmente attiva in Pakistan ed Afghanistan, dove, nonostante l’opposizione rispettivamente dell’esercito pakistano e dei Talebani, è stata in grado di incrementare la sua struttura passando a 5-6.000 membri, avendo reclutato giovani afghani e pakistani, disgustati dal clima di corruzione e di mancanza di futuro che si respira nei due Paesi.
Si sa poco della sua organizzazione, se non che siamo di fronte a una struttura estremamente flessibile, con un capo riconosciuto, il 29enne Sanahullah Ghafari, ma anche con larga autonomia organizzativa concessa ai responsabili di zona.
È interessante rilevare come ISIS K nasca nello scorso decennio come una “costola” dei Talebani afghani, dai quali si è differenziata per una applicazione della “sharia” molto più intransigente e rigorosa, tanto da essere diventata il principale nemico di Kabul.
I Talebani, oggi come oggi, non hanno la forza di eliminare questa presenza perché l’embargo di fatto decretato dagli occidentali nei loro confronti li priva di armi moderne, alle quali invece Isis K riesce ad accedere. Insomma, per dirla in sintesi, ci siamo così impegnati a fronteggiare i Talebani che non ci siamo accorti della crescita di un avversario molto più pericoloso, come il massacro di Mosca (territorio che sarebbe stato al di fuori del suo raggio di azione) sta a dimostrare.
Per tornare a quest’ultimo, organizzare un attentato così devastante richiede una logistica efficiente (si pensi al trasporto delle armi, agli spostamenti, alle ricognizioni ecc.), pur non potendosi escludere falle “ingiustificabili” nel servizio di sicurezza, con metal detector non attivi, telecamere di sorveglianza spente, poliziotti che non si trovavano là dove avrebbero dovuto essere, tutte operazioni realizzate verosimilmente in cambio di un cospicuo numero di rubli.
Gli attentatori (di cui quattro catturati, tre in fuga ed altri quattro ricercati) erano tagiki, vale a dire musulmani di etnia persiana che provengono da un Paese che faceva parte della ex URSS, ma che non si era mai distinto in passato, a differenza ad esempio di Cecenia, Daghestan e Inguscezia, per ospitare nuclei terroristici.
La Russia esce certamente indebolita dalla vicenda. Putin, fin dalla sua presa del potere alla fine degli anni ‘90, aveva promesso ai suoi concittadini “sicurezza e un minimo di benessere in cambio del potere”. Poi il “benessere”, per via della guerra in Ucraina è diventato la “dignità di una Grande Potenza” ed ora rischia di perdere anche l’elemento “sicurezza”, visto che l’attacco è arrivato pochi giorni dopo la sua plebiscitaria rielezione e dopo che il leader del Cremlino aveva beffardamente risposto agli USA che lo avevano avvertito della minaccia islamista.
Che i musulmani in Russia (20% della popolazione) vengano di fatto considerati cittadini di serie B (“russi di passaporto e non russi etnici”) è un dato di fatto. Ed è documentabile anche dai caduti nella guerra in Ucraina, che provengono in modo esageratamente sproporzionato dalle regioni più povere e trascurate della Federazione, arruolati “di forza” per andare a morire al posto dei giovani di Mosca e San Pietroburgo risparmiati, almeno in parte, dalla mobilitazione.
Oltretutto non sembra reggere la tesi della responsabilità ucraina, che Mosca cerca di chiamare in causa senza però fornire le relative prove. In effetti Putin, piuttosto che incolpare di scarsa vigilanza i suoi tanto decantati servizi (di cui egli era membro prima di intraprendere la carriera politica) preferisce giocare la carta della pista estera, che gli permette di irrigidire ancora di più la stretta contro gli oppositori interni (in questa occasione il suo portavoce ha per la prima volta parlato di una Russia “in guerra”) senza nel contempo calcare troppo la mano sulle responsabilità dei musulmani, argomento assai delicato almeno in questo momento.
Eppure una domanda si pone: come mai i terroristi stavano fuggendo verso Ovest, quindi verso la controllatissima frontiera russo-ucraina e non verso Est, là da dove erano venuti e dove tutti sanno che le misure di controllo sono molto meno stringenti?
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