Al momento in cui scriviamo queste righe, Dune: Parte Due ha quasi raggiunto i 500 milioni di dollari nel mondo. È dunque ufficialmente un successo, essendo costato circa 190 milioni: a meno di un mese dalla sua uscita ha già superato gli incassi del primo capitolo (uscito, va detto, sotto Covid), e questa non può che essere una buona notizia, perché non stiamo parlando di un blockbuster come gli altri, ma di un duro film d’autore in cui i “buoni” non sono poi così buoni e le macchinazioni politiche vanno a braccetto con le scene spettacolari.

La prima parte aveva messo bene in chiaro questo, ma d’altro canto la precedente filmografia di Denis Villeneuve era già di per sé un indizio: il regista canadese non aveva alcuna intenzione di annacquare il messaggio di Frank Herbert o di semplificarlo per far aderire il film agli stilemi del blockbuster moderno. Altrimenti avrebbe rischiato di tradirlo, perché Paul Atreides, “l’eroe” di Dune, nella visione di Herbert era in realtà un falso messia, il cui mito era stato strategicamente creato dalle Bene Gesserit, la sorellanza che tira le fila politiche dell’universo futuro in cui è ambientata la saga. Herbert gli fa dunque compiere le classiche tappe del viaggio dell’eroe, con l’intenzione, però, di sovvertire le aspettative del lettore. È risultato subito evidente come Villeneuve intendesse abbracciare questa visione: la scelta di Timothée Chalamet, un attore dal fascino schivo e altero, diceva già molto.

Capitalismo galattico

Fortunatamente, Dune: Parte Due prosegue in questa direzione, mettendo bene in chiaro chi e cosa ci sia dietro l’improvvisa scalata al potere di Paul, mostrando gli effetti della fede cieca sulle masse, pronte a immolarsi per una causa che appare come giusta, ma in realtà usate solo come pedine nelle macchinazioni di una classe dirigente mossa, alla fine, dalla brama di potere e (ecco il parolone che stavate aspettando) dal capitalismo.

Timothée Chalamet è Paul Atreides in Dune: Parte Due.

Perché, sì, l’universo di Dune è nato da una Jihad che ha cancellato l’esistenza dei computer e rifondato l’ordine cosmico su una sorta di feudalesimo galattico, in cui a far muovere la baracca è il commercio della Spezia, sorta di droga magica che tutto può. Di recente qualcuno ha scritto che i miliardari che stanno tentando di lanciare la corsa privata allo spazio non sognano Star Trek, ma Dune. È verissimo e terrificante. Il mondo di Dune è il turbocapitalismo allo stato puro e Paul “Muad’dib” “Lisan al Ghaib” Atreides è l’equivalente del CEO che sfrutta i dipendenti e si giustifica dicendo: «Se non lo faccio io, lo farà qualcun altro peggio di me». Non esattamente Luke Skywalker, insomma.

Alla corte di Shai Hulud

Per cui tanto di cappello a Villeneuve per aver cavalcato queste idee come Paul cavalca il vermone in una delle scene più belle del film. Come nella prima parte, anche in questa seconda non si salva praticamente nessuno, se non Chani (Zendaya), il personaggio che più di tutti diverge dal romanzo per diventare una sorta di controparte critica all’ascesa di Paul. Ci vuole coraggio ad andare fino in fondo e non tentare, almeno un po’, di addolcire la pillola, specialmente nel caso di un marchio così poco popolare (oggi) come Dune. Warner Bros. ci ha investito parecchio – anche se decisamente meno di un normale film di supereroi – e ha rischiato di non recuperare i costi. Per quanto, anche in condizioni avverse, il primo avesse fatto abbastanza bene, nulla poteva assicurare allo studio che questo sarebbe andato così bene. Questo prova che sfidare il pubblico, anziché tentare di arruffianarselo, ogni tanto paga.

Zendaya nel ruolo di Chani.

Certo, poi, non è che Villeneuve abbia esattamente confezionato un mattone da cineforum: Dune: Parte Due è pur sempre un filmone grosso e spettacolare, dove le scene di massa, le grandi battaglie e gli effetti visivi imponenti contribuiscono a far srotolare mascelle con secchi schiocchi per tutta la sua ragguardevole durata, 166 minuti che volano via come brezza primaverile nonostante il caldo del deserto di Arrakis. Ce n’è per tutti: per quello che ha letto i libri e cerca quindi quello stesso “gioco dei troni”, e per quello che ha visto solo i film ed è andato al cinema per vedere dei vermoni giganti che fanno le cose che solo i vermoni giganti sanno fare. Villeneuve sa unire queste due anime in un altro film serissimo, duro, tanto avventuroso quanto cerebrale. Avercene.

Denis vs. Jodo

Purtroppo, però, nel fare questo Villeneuve si è anche dimenticato di lasciarsi trasportare, e di trasportarci, in un mondo alieno straniante. Le sue architetture marziali, la sua forte razionalità registica e il suo freddo intellettualismo finiscono per prosciugare un po’ il respiro epico, per privare Dune di quell’afflato mistico, anche un po’ bizzarro, che lo rendeva iconico. Non è un caso che un regista mistico, bizzarro e iconico come Alejandro Jodorowsky avesse tentato di realizzarne un adattamento: grazie all’ottimo documentario Jodorowsky’s Dune ci si può fare un’idea di quanto quel progetto sarebbe stato diametralmente opposto a questo, visionario e weird. Anche perché, ovvio no?, Jodorowsky e Villeneuve sono filmmaker diametralmente opposti.

Una spettacolare scena di Dune: Parte Due.

Il primo Dune funzionava perché quell’idea marziale di cinema ben si sposava con l’asciutta formalità del feudalesimo futuro. Ma la seconda parte del romanzo di Herbert è l’epitome stessa dell’attraversamento della soglia di campbelliana memoria: dal suo mondo ordinario, Paul si ritrova catapultato in un mondo straordinario di ribelli nomadi, vermoni e droga. La Spezia, il Melange, dopo tutto, questo è: una droga che permette agli umani di superare i loro limiti e sostituire le macchine pensanti, bandite dalla Jihad. L’ascesa di Paul è un lungo incubo lisergico in cui visioni di morte e distruzione, suggeritegli dal consumo di Spezia, lo spingono a conquistare l’universo.

Puoi prestarmi un’emozione?

Ed è proprio qui che Villeneuve inciampa in qualcosa che, purtroppo, non gli riesce: le visioni di Dune: Parte Due sono deboli, ripetitive, troppo scarne per comunicare l’abisso di terrore che avvolge Muad’dib e lo spinge ad agire. Si tratta, probabilmente, di un limite naturale di Villeneuve: lui ama la fantascienza realistica e tangibile – e infatti, gaudio magno, non vediamo l’ora di vedere cosa combinerà con Incontro con Rama di Arthur C. Clarke, suo prossimo film – mentre Dune è un fantasy politico barocco e lisergico. In altre parole, Villeneuve non ha usato l’estetica rigida della prima parte per preparare il terreno all’escalation drogata della seconda: quell’estetica era l’unica possibile scelta per lui, perché è la sua cifra stilistica e autoriale. In altre parole ancora: forse Denis Villeneuve non era la scelta migliore per portare Dune al cinema, ma non potevamo saperlo prima di vedere la Parte Due.

Javier Bardem è Stilgar, leader dei Fremen.

In due film di quasi tre ore, a conti fatti, Villeneuve non è riuscito che a scalfire la superficie del complesso universo di Frank Herbert. È ovvio e necessario, al cinema, sintetizzare e ridurre, ma l’asciuttezza delle scenografie e dei costumi non riesce a comunicare l’esistenza di un mondo ben più vasto al di fuori di Arrakis. Quello che vedi è quello che esiste, nel Dune di Villeneuve, mentre il word-building, cioè l’atto di evocare tutto il contorno che non si vede in ogni scena, ma che rende un mondo fantastico vivo e originale, è sacrificato sull’altare della linearità.

Ciò non toglie che l’opera, nel suo complesso, sia riuscita. Soprattutto è riuscito il progetto di tornare a far pensare il pubblico di fronte a un blockbuster. Ora c’è solamente da sperare che altri registi, produttori e studios seguano l’esempio di Villeneuve, perché questo cinema grosso e coraggioso ci mancava.

Rebecca Ferguson è Lady Jessica, madre di Paul e ora sacerdotessa dei Fremen.

© RIPRODUZIONE RISERVATA