Dopo i primi tre appuntamenti, che hanno affrontato il tema lessicale, quello degli spazi e dei modi della violenza e discriminazione di genere e del controllo formale e informale sulla donna nella nostra società, siamo arrivati al gesto, la parola e le immagini.

Quando ci si accosta al fenomeno della discriminazione, verso gruppi nazionali, etnici, razziali, religiosi, fondata sull’orientamento sessuale o sulla identità di genere o sesso, riappare la centrale questione del gesto e della parola della loro potenza specie quando vengono utilizzati in pubblici dibattiti o in manifesti preordinati a svolgere propaganda politica. Si scorda allora che la libera manifestazione di pensiero ha dei limiti, e non serve scomodare il “buon costume” o gli “hate speech” di matrice anglosassone, o i recenti dibattiti americani in occasione delle passate primarie, assai aspri quando si sostengano idee incentrate sul problema del “sovraffollamento del pianeta”. La manifestazione del pensiero investe anche la discriminazione di sesso e/o di genere; e appare allora ancora più semplice banalizzare e ridurre il tutto a battuta folkloristica o ad ostentato machismo, piuttosto che trasformare il sentire in indignazione.

Le parole non sono neutre

Un gruppo di letterate trentine ha dato vita ad una iniziativa su tale aspetto intitolata “le parole non sono neutre”.Queste studiose sostengono che la lingua italiana sia una lingua sessuata, così come il tedesco e lo spagnolo, e spesso il sessismo è tradotto in parole, e si traduce, a sua volta, in discriminazione e quindi in disuguaglianza portatrice in molti casi di violenza.

Volendo fare un rovesciamento di prospettiva si pensi a quanto si senta fortemente minacciata l’identità di genere maschile tradizionale da un linguaggio semplicemente rispettoso delle donne. Ma di indignazione nei tempi passati ne abbiamo vista assai poca: nella terminologia e mitologia cielodurista di alcuni partiti politici, si poteva agevolmente notare una ossatura retorica politica perversa, soprattutto in occasione della emanazione del primo pacchetto sicurezza, intessuto di allarmi contro la criminalità identificata a priori nella immigrazione, poiché  forte appariva, come si afferma in dottrina, il pericolo “della contaminazione del sangue e del suolo” minacciato dalla straripante potenza sessuale straniera.

Mi piace a tale riguardo rammentare la frase di Levi –Strauss rispetto allo stupro“..noi sposiamo italiani, loro gli altri stranieristuprano”.

Rammento poi le forti analogie intercorrenti tra i vissuti delle donne durante il ventennio della dittatura di Mussolini nel nostro paese e quelli dell’esperienza della Spagna, che durante la dittatura Franchista (1939-1975) vide le donne spagnole vivere un lungo periodo di sospensione dei diritti politici, mentre nasceva un nuovo tipo di propaganda politica, che attraverso l’intervento dello Stato e della Chiesa,giustificava agli occhi della società civile la discriminazione delle donne e la violenza di genere. In quel periodo, come affermano Chiara Ioratti e Inma Mora Sànchèz: “..Le donne avevano un ruolo marcatamente differenziato rispetto all’uomo, il loro unico posto era la casa e la famiglia, l’educazione era improntata ad avere buone madri e buone mogli…il sistema di istruzione franchista eracreato per formare le donne ad una obbligata e inderogabile sottomissione agli uomini: le leggi franchiste equiparavano le donne ai minorenni, affidate alla tutela del padre prima e marito poi. Ogni azione quotidiana, come richiedere un passaporto, aprire un conto corrente richiedeva da parte delle donne la c.d.“licentia marital” ossia una autorizzazione firmata dal marito ad intraprendere tali attività.”

E così è accaduto anche nel nostro paese durante il ventennio fascista lacerato, ancora oggi, tra nord e sud: ripensiamo all’omicidio cd “d’onore” (art. 587 cp abrogato nel 1981) rispetto al quale, tornando alla indignazione, si assisteva da parte della società civile ad un minor livello di condanna proprio in quanto  giustificato dal “sangue, dal suolo, dall’onore”.

Depositarie del futuro

Tale tipo di impostazione propagandistica portava le donne in Italia a considerarsi depositarie del futuro, della continuità culturale e nazionale, autoalimentando in loro stesse la paura per il “diverso” da loro, lo straniero. Si ritorna, su tali basi ideologiche, e lo fanno anche le donne, soprattutto in determinati periodi storici, a qualificare lo stupro, come ho prima accennato, a strumento di sopraffazione da parte dello straniero che lede non tanto la persona donna e la sua libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale, ma l’integrità culturale della stirpe, della nazione.

Questo accadeva in Italia durante la vigenza del codice Rocco, in questa prospettiva veniva affrontata la questione femminile.

A tale proposito è emblematico che il titolo X del libro II del codice penale fosse titolato “Dei delitti contro la integrità della stirpe” titolo abrogato dall’art. 22 co 1 della l. 22-05-1978 n.194 recante “Norme per la tutela sociale della maternità e sulla integrazione volontaria della gravidanza”. Un titolo che precedeva, sistematicamente, quello dei delitti contro la famiglia, in cui era previsto il delitto di adulterio, seguito da quello di concubinato (dei quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale solo nel 1969), ed in specie contro la morale famigliare, frai quali rinveniamo all’art. 564 cp, il reato di incesto, che ha suscitato dubbi profondi di legittimità costituzionale, nel sistema tedesco oltre che in quello italiano, specie sulla presunzione di pericolosità dell’incesto tra fratelli maggiorenni consenzienti”.

A mio modo di vedere appare eloquente una rapida carrellata sulle fattispecie criminose previste nel titolo X non a caso, nell’ottica di tutela primaria dello Stato, dal punto di vista della oggettività giuridica precedeva quello dedicato alla tutela della persona umana.

Leggiamo solo le emblematiche rubriche degli articoli del titolo XIV del codice penale del 1930: art. 545 “Aborto di donna non consenziente”, art. 546 “Aborto di donna consenziente”, art. 547 “Aborto procuratosi dalla donna”, art. 548 “Istigazione all’aborto”, art. 549 “Morte o lesioni di donna”, art. 550 “Atti abortivi su donna ritenuta incinta”, art. 551 Causa d’onore (“Se alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 546 ss è commesso per salvare l’onore proprio o di un prossimo congiunto, le pene sono diminuite dalla metà ai due terzi”), art. 552 cp “Procurata impotenza alla procreazione”; art. 553 “Incitamento alle pratiche contro la procreazione”; art. 554 “Contagio alla sifilide e alla blenorragia”.

E ancora mi piace ricordare, attraverso l’arte cinematografica, chi eravamo a quell’epoca attraverso le immagini del film “Una Giornata Particolare” di Ettore Scola, interpretato da Marcello Mastroianni e da Sophia Loren.

Ripenso alla figura di Antonietta, ai suoi collant bucati sul piede, alle borse sotto i suoi occhi di donna fiaccata dall’esistenza e stanca, forse, di essere considerata una cosa per pulire e far figli: la rivedo che vive nel mito del duce, che non può partecipare alla sfilata di Hitler su Roma, rivedo la sua tragica inconsapevole sottomissione ad un marito machista che fa le flessioni e ordina e basta, ma ricordo anche le immagini di un “sovversivo impotente” che la tratta da essere umano, che le insegna i passi del mambo e le insegna l’amore per il romanzo dei “Tre moschettieri” e che la fa innamorare in un terrazzo assolato dove sventolano bianche lenzuola. Poi rivedo l’ultima scena, quel sovversivo che scende lentamente le scale di un condominio dove si stagliano appese svastiche, quelle di lui deportato perché “diverso”: omosessuale o come lui dice “invertito” disumanizzato.

Una spinta che non funziona

Quello che più colpisce di quel periodo storico è però come, nonostante la spinta ossessiva alla maternità, le donne abbiano risposto con un blocco della natalità, riproposta invece con fiducia dopo la fine della guerra, cui ha fatto poi seguito il crollo negli anni ottanta e novanta.

Mara Carfagna

Rifacciamo ora un salto in avanti e torniamo ai dati riportati dalla ex ministra con delega alle pari opportunità, Mara Carfagna che sono a mio parere inquietanti: ma fanno riferimento, ad esempio, all’omicidio delle donne ancora e solo come fenomeno criminale, senza una analisi interpretativa che adotti quali criteri anche il sesso e il genere.

In realtà, la violenza del maschile sul femminile sconta l’ottica della differenza di sesso e di genere, collocando le radici di tale violenza nella storia e, purtroppo, nella ancora attuale disparità di poteri tra uomini e donne nei diversi ambiti sociali.

Personalmente manifesto dei dubbi sulla scelta di privilegiare esclusivamente modelli di carattere assistenziale, per la risoluzione di siffatti problemi. Pur rendendomi conto che il riparo presso i centri antiviolenza è un passaggio obbligato per tutelare le donne e fronteggiare un allarmante fenomeno quale quello della violenza del maschile sul femminile, avanzo perplessità sul come vengono strutturati i piani di inserimento: lo sradicamento della donna sofferente dai pochi punti di riferimento che la stessa ha, non mi paiono sempre confacenti alle esigenze affettive e concrete delle donne maltrattate, che magari contano di poter conservare un minimo di autonomia: un lavoro, affetti, contesti accoglienti.

Mi paiono più utili i ricorsi a misure cautelari personali inflitte agli uomini maltrattanti: penso al divieto o all’obbligo di dimora in determinate zone o al divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalle donne e dai loro figli.

Reputo, inoltre, che un approccio non solo carcerario vada riservato agli autori di tali tipologie di reati. Si commette, a mio modo di vedere, un errore quando non si vogliono nominare e mappare anche le patologie o quei banali disturbi di tipo abbandonico che donne e uomini vivono, magari al termine di una relazione affettiva. Con tale affermazione non intendo percorrere nel modo più assoluto una strada giustificazionista, o che trasformi gli uccisori in vittime. Si discute, ad esempio, se nel diritto penale moderno, come sopra accennato, non vada attribuita una maggiore importanza alle sanzioni di tipo interdittivo. Nel caso della violenza endofamiliare penso ad esempio alla decadenza/sospensione dalla responsabilità genitoriale- in caso di definitiva condanna- o all’obbligo di frequentare percorsi di ri- socializzazione, che permettano al reo una rivisitazione critica del proprio passato. In mancanza di consapevolezza, la cd “coazione a ripetere”, per quanto riscontrato nella prassi, pare ineluttabile, pur non volendo offrire di tutti i maltrattanti la rappresentazione di soggetti affetti da infermità di mente. Penso che la società vada liberata dalla violenza del maschile sul femminile valutando il fenomeno nella sua estrema complessità.

L’utilizzo della categoria del “femicidio” è stata finalizzata a rilevare come ogni forma di discriminazione e violenza nei confronti della donna sia agita dall’uomo come espressione di potere su di lei, come mezzo di controllo, teso al mantenimento della donna nel ruolo per lei politicamente costruito dall’ordine patriarcale, attraverso il suo assoggettamento nel corpo, nella psiche, nelle relazioni sociali.

In tale prospettiva, si assiste ad un declassamento della donna a “non persona” e i suoi diritti vengono quindi ridotti o, comunque, fortemente negati nel loro esercizio. È un tratto comune a tutte le figure delittuose relative alla discriminazione, quali contemplate dal cd decreto-Mancino e costituiscono l’oggettività giuridica intesa come diritto alla dignità della persona.

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