A 17 anni di distanza dai fatti, è stata accolta la richiesta di discussione della revisione del processo che ha visto condannati in via definitiva all’ergastolo i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi per quello che, nel 2006, fu uno dei romanzi neri più seguiti dai mass media e dall’opinione pubblica: la strage di Erba, nella quale furono massacrate quattro persone, tra cui un bambino di due anni, e che lasciò invalido l’unico sopravvissuto.

La Corte d’Appello di Brescia ha accettato di discutere, a partire dal primo marzo, i nuovi elementi portati in tre diverse istanze dagli avvocati dei coniugi Romano, Fabio Schembri, Nico D’Ascola e Luisa Bordeaux, e dal sostituto procuratore generale di Milano, Cuno Tarfusser.

Cos’è la revisione di un processo?

Ma prima di entrare nel dettaglio di quanto prodotto dai 57 consulenti che, a vario titolo e tutti rigorosamente pro bono, hanno contribuito a redigere le istanze di revisione presentate, è necessaria una premessa in punta di diritto sull’istituto giuridico della revisione di un processo e sulle sue finalità nel nostro ordinamento penale. Perché la strage di Erba non fu solo la drammatica carneficina di cinque innocenti, ma parallelamente anche la storia di una coppia all’apparenza normale, per certi versi addirittura banale, che all’improvviso diventa agli occhi della giustizia e di un intero paese “la coppia diabolica”, in seguito ad una condanna sulla quale, a detta della stessa Corte di Cassazione che confermò l’ergastolo per i due coniugi, “si addensano a tutt’oggi molte ombre e sulla quale pesano molte aporìe”.

Nel ramo penalistico la revisione è prevista dall’articolo 629 del codice di procedura penale. È ammessa in ogni tempo a favore dei condannati, nei casi determinati dalla legge, anche se la pena è stata eseguita o è estinta. L’organo competente è la Corte d’Appello.

Di fatto, è uno strumento offerto dall’ordinamento al condannato per potere fare fronte a sentenze ingiuste passate in giudicato. L’unico che può proporre una domanda di revisione è infatti il condannato o chi agisce nel suo interesse, come i suoi avvocati difensori o il Procuratore. L’unica domanda che si può avanzare è il proscioglimento, non si possono chiedere diminuzioni di pena o sconti, perché questo istituto mira a correggere decisioni della giustizia palesemente errate. La revisione può essere richiesta per i motivi tassativamente previsti dalla legge, e in relazione a elementi evidenti che abbiano la possibilità di far prosciogliere chi ne fa richiesta.

Nuove prove

Uno dei motivi di richiesta di revisione di un processo è che, dopo la condanna, siano sopravvenute o si scoprano nuove prove che, da sole o collegate a quelle già valutate, dimostrino che il condannato deve essere prosciolto dalle accuse a suo carico.

Inoltre, Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 19 gennaio 2000 ha emanato la raccomandazione n. R (2000) 2 sul riesame o la riapertura di determinati casi a livello nazionale, a seguito di sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. In molte circostanze infatti (risoluzione interinale 99-258 del 15 aprile 1999, risoluzione interinale ResDH 2002-30 del 19 febbraio 2002 e risoluzione interinale ResDH 2004-13 del 10 febbraio 2004), il Comitato ha lamentato l’impossibilità, in Italia, di riapertura di procedimenti giudiziari a seguito di violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a fronte di almeno due accertamenti di violazioni procedurali della Convenzione compiuti dalla stessa Corte europea, nel caso ad esempio di Paolo Dorigo, condannato in Italia ad una lunga pena detentiva in seguito ad un processo considerato non equo secondo la Convenzione, e che in seguito all’intervento della Corte fu infine scarcerato in via definitiva.

È quindi del tutto evidente come l’istituto della revisione di un processo rappresenti, tanto nella filosofia del diritto quanto nella sua applicazione, uno strumento straordinariamente moderno di garanzia della giustizia. Se lo Stato è laico, non si può considerare “divino” e insindacabile nemmeno il giudizio dei giudici, a meno di rinunciare ad uno dei cardini del diritto occidentale: il favor rei, principio generale traducibile nell’atteggiamento che privilegia l’imputato o il condannato e rende possibile, in determinate situazioni, concedere maggiore rilievo all’interesse dell’imputato rispetto ad altri interessi emergenti nella dinamica processuale.

Il nostro ordinamento ha scelto, dunque, di prediligere, in caso di aporìa, il favor libertatis, cioè la tutela della libertà personale di ogni individuo, prevedendo l’istituto della revisione.

Un processo “condizionato” fin dall’inizio

Ora, il caso giudiziario dei coniugi Romano è stato fin dall’inizio caratterizzato da una pressione mediatica senza precedenti, che pesò inevitabilmente anche sugli organi inquirenti. La portata dello shock collettivo percepito fu tale da rendere evidentemente necessario chiudere al più presto il caso, con nomi e cognomi dei colpevoli.

Date le comprovate frequentazioni ambigue di una delle vittime, Raffaella Castagna, e delle attività illecite del marito Azouz Marzouk legate alla droga, la pista più intuitiva sarebbe stata quella legata al mondo della criminalità. Anche le modalità di attuazione della strage, con le vittime sgozzate di netto con un coltello e l’incendio appiccato subito dopo per cancellare ogni traccia, rimandano a modalità tipiche di un certo ambiente criminale.

Invece no. Vengono attenzionati due coniugi di mezza età vicini di casa delle vittime, Olindo Romano e Rosa Bazzi, netturbino lui, analfabeta lei, legati da un matrimonio fondato su un legame esclusivo che la stampa dell’epoca non esitò a definire “patologico”. Due “strani”, insomma, che avevano più volte discusso con Raffaella Castagna per via dei rumori molesti che spesso provenivano dal suo appartamento. Sarebbe questo, secondo i giudici, il movente alla base della strage per la quale verranno condannati.

Una precisione sospetta

Una strage compiuta con precisione chirurgica fin dall’inizio, con il contatore della luce spento per l’occasione, singoli colpi mortali inferti con lame di coltello per recidere di netto la carotide (l’unico sopravvissuto, Mario Frigerio, si salverà solo per una deformazione congenita alla carotide, della quale nemmeno lui era a conoscenza, che gli impedì di dissanguarsi completamente prima dell’arrivo dei soccorsi) e un incendio appiccato subito dopo per cancellare ogni prova.

Inevitabile chiedersi come due persone come Olindo Romano e Rosa Bazzi avrebbero potuto compiere una tale mattanza senza trattenere alcuna traccia biologica su di sé, né all’interno della loro abitazione. Perché nessuna traccia è mai stata trovata né sui loro vestiti, né all’interno delle tubature della loro abitazione, accuratamente analizzate dai RIS di Parma.

Nessuna tranne una, la prima prova contro Olindo Romano: una cosiddetta “traccia ematica fantasma” di una delle vittime sul battitacco del conducente dell’auto dei coniugi. Ma nei giorni immediatamente successivi agli omicidi, sulla scena del crimine ci fu un notevole andirivieni di esponenti delle forze dell’ordine. La tesi della difesa, ribadita nella richiesta di revisione, è sempre stata che la traccia ematica fu portata sul battitacco dell’auto di Olindo Romano per contaminazione da uno degli agenti di polizia incaricati delle indagini preliminari.

In seguito, emerse infatti come in molti sopralluoghi, gli agenti non indossassero alcuno dei dispositivi previsti per evitare l’inquinamento delle prove e della scena del crimine. Infine, la traccia era talmente residuale da aver destato un acceso contradditorio tra i periti delle parti, in tutti e tre i gradi di giudizio, sulla sua attendibilità.

Un riconoscimento molto più che dubbio

L’altra prova che portò i coniugi Romano all’ergastolo fu la deposizione dell’unico sopravvissuto alla strage, Mario Frigerio, che dopo aver inizialmente indicato come suo aggressore “un uomo alto, scuro di carnagione, mai visto prima e forte come un toro” (quindi del tutto incompatibile con la descrizione di Olindo Romano), dopo vari colloqui con il comandante dei carabinieri di Erba, Luciano Gallorini, che forse gli avrebbe suggerito il nome del suo vicino di casa Olindo Romano, cambierà versione identificando Olindo come il suo aggressore, e mantenendola fino alla fine.

Su questo punto, la richiesta di revisione si basa sul fatto che il riconoscimento da parte di Mario Frigerio non può considerarsi attendibile, da un lato perché potenzialmente indotto dal Gallorini (sulla base delle intercettazioni ambientali agli atti dei vari gradi di giudizio), e dall’altro perché Frigerio, dopo il trauma subìto in seguito all’accoltellamento, era di fatto rimasto cerebroleso per i danni conseguenti all’inalazione del monossido di carbonio sprigionato dall’incendio, e di conseguenza da ritenersi non in grado di testimoniare.

Infine, la terza prova a supporto dell’ergastolo inflitto ai Romano furono le loro imprecise e contraddittorie confessioni, avvenute a distanza di giorni in cui si erano sempre detti entrambi innocenti, e che iniziano dopo che ai due viene promessa “una cella matrimoniale” se avessero confessato di essere gli autori della strage.

Ed è qui il “clic” del procedimento penale per l’accusa, perché senza quelle confessioni, la traccia ematica fantasma e il riconoscimento (forse indotto) di un superstite cerebroleso non avrebbero mai retto alle accuse di una strage di tale portata, in un dibattimento penale. Mai avrebbero portato due persone incensurate, del tutto estranee fino a quel momento a condotte criminali di quella portata, senza alcun precedente che potesse indurre il minimo sospetto, ad essere condannate all’ergastolo.

Nessuna prova a carico di Rosa

Nel caso di Rosa Bazzi, poi, le prove a suo carico si riducono esclusivamente alla sua confessione, perché non è mai stata riconosciuta dal superstite Mario Frigerio e, non avendo la patente di guida, non avrebbe potuto in nessun caso aver portato lei la traccia ematica sul battitacco del conducente dell’auto di famiglia.

Dunque, secondo la tesi della richiesta di revisione, la Bazzi è stata condannata all’ergastolo solo ed esclusivamente sulla base della sua confessione. Rosa Bazzi, analfabeta, con un quoziente intellettivo che sia i periti del pubblico ministero che quelli della difesa hanno giudicato inferiore alla media, che si trova a parlare con dei magistrati in una condizione di stress enorme e con la prospettiva di essere separata per sempre dalla sua unica ragione di vita, il marito Olindo.

Ed è di queste ore la notizia che Azouz Marzouk, marito di una delle vittime e padre del piccolo Youssef, anche lui morto nell’agguato, sarà in aula il primo marzo a Brescia quando si discuterà l’istanza di revisione presentata dai legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi. Convinto dell’innocenza dei due coniugi, Marzouk si assocerà alla richiesta di revisione della sentenza, e quindi all’annullamento dell’ergastolo.

Un’Italia spaccata in due

Sulla vicenda dei coniugi Romano, l’Italia si è spaccata da subito tra innocentisti e colpevolisti come raramente era accaduto prima, e tutt’ora i due schieramenti si contrappongono in maniera netta.

Ma questa richiesta di revisione non va considerata nei soli confini della strage di Erba e della storia dei coniugi Romano. È, e dovrebbe essere considerata, molto di più: la garanzia per ogni cittadino, a prescindere dal suo status sociale, intellettivo ed economico, del diritto alla giustizia anche postuma.

Non è dato sapere, ad oggi, se la richiesta di revisione per Olindo Romano e Rosa Bazzi verrà accolta, né quale sarà l’esito del nuovo eventuale processo in caso positivo.

Quello che invece dovrebbe interessare a tutti i cittadini in una democrazia, se non compiuta, quantomeno evoluta, è la certezza che in caso di sentenze che privano per sempre della libertà degli esseri umani, chiunque essi siano, il nostro ordinamento ritenga che, a fronte di dubbi giudicati legittimi, valga la pena continuare a cercare di restituirla quella libertà, che è la caratteristica che connota qualunque Stato di diritto.

Foto a corredo dell’articolo tratte da Pexels e di Ekaterina Bolovtsova

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