Alla radio John Lennon canticchia “un anno è finito e un altro sta per cominciare”. Banale, come molti dei suoi testi fricchettoni, ma incontestabile. Vogliamo allora fare un recap (che è trendy) di alcuni avvenimenti che hanno caratterizzato a livello globale l’anno appena passato. Non i più importanti, probabilmente.

In fondo, anche Lennon nello stesso pezzo prende un abbaglio colossale. La guerra non è finita, purtroppo. Al conflitto nel cuore dell’Europa orientale si è aggiunta instabilità su diversi fronti, dall’Africa coi suoi golpe e le guerre civili, fino alla Palestina, dove il bambinello non ha trovato nemmeno una capanna dove nascere in tranquillità.

Gennaio: Brasilia, District of Columbia

Dopo mesi di manifestazioni, i sostenitori del presidente Bolsonaro, sconfitto nelle elezioni di ottobre 2022, danno l’assalto al Congresso del Brasile. Numerosi i feriti e oltre un migliaio i fanatici che l’esercito riesce a sgomberare dall’accampamento, allestito nelle vicinanze del quartier generale dell’esercito stesso. Il pensiero corre subito a Washington, due anni prima, sia per le dinamiche di devastazione, sia per le affinità elettive tra Bolsonaro e chi è accusato di aver fomentato l’attacco a Capitol Hill, l’ex presidente Trump.

In entrambi i casi c’è un presidente uscente in vacanza in Florida (guarda il caso, a volte) che condanna in modo blando gli eventi richiamando tutti ai principi democratici, alla calma delle idee. In entrambi i casi ci sono evidenti lacune nella sicurezza pubblica, scene imbarazzanti che fanno gridare alcuni osservatori alla “compiacenza”, o “connivenza” delle forze armate. Bella fatica, a conoscere la storia un dubbio è legittimo.

Febbraio: sciame sismico e terremoto economico

Il 6 febbraio due terremoti colpiscono la zona di confine tra Turchia e Siria, con scosse che proseguono per giorni. Viene definito il peggior disastro in cento anni, con oltre 60mila vittime e innumerevoli feriti, oltre a milioni di sfollati in un territorio distrutto. Colpito anche il presidente Erdoĝan, cui viene imputato il ritardo nei soccorsi, la lontananza fisica e psicologica dal disastro e la scarsa qualità dei palazzi da lui fatti costruire, ora ridotti a cumuli di macerie.

Il Sultano ha in effetti altri pensieri, è concentrato sulle imminenti elezioni. Qualcuno arriva a ipotizzare che, sulla scia dello sconforto, si possa anche eleggere un nuovo presidente: sprovveduti che non conoscono il valore di una Turchia stabile nel quadrante mediorientale, poco importa se autocratica e illiberale. Erdoĝan vince il ballottaggio di fine maggio 2023 con il 52% dei voti e, sarà pure una coincidenza, la sua politica macroeconomica abbandona le assurdità viste fin lì per abbracciare strumenti e iniziative molto più ortodosse. Molto più atlantiche, potremmo dire.

Marzo: dalla Russia con (zero) amore

Inconcepibile: uno non fa neanche in tempo a festeggiare l’anniversario della sua “operazione militare speciale” il 24 febbraio, che subito arriva un altro a rovinargli la festa. Il 17 marzo viene spiccato un mandato di arresto a carico del presidente Putin dalla Corte penale internazionale per presunti crimini di guerra e contro l’umanità. È la prima volta che tale provvedimento viene spiccato contro un membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, uno di quelli che dovrebbero mantenere la “pace nel mondo” di cui parlano tutte le miss Universo (e pure il solito Lennon).

L’orsacchiotto russo si spaventa a tal punto da rimandare alcuni viaggi, che all’estero si rischia l’avvelenamento o di cadere da una finestra. È talmente paralizzato dalla Corte di giustizia che qualche giorno dopo invita a casa il presidente cinese Xi, in una visita che porterà a stipulare un accordo di collaborazione verso una “nuova èra” tra i due Paesi. Altro esempio di quel famoso detto: il peggior nemico del mio nemico è mio nemico ma mi serve.

Aprile: e allora, beccati ‘sta Finlandia!

Se uno pensa che Putin ha riacceso una guerra che dura da dieci anni (mica uno) anche per impedire l’allargamento della NATO, viene un po’ da sorridere il 4 aprile, quando la Finlandia, con cui la Russia condivide una frontiera lunga quanto l’intera Italia, entra a far parte della sacra alleanza atlantica. La sua bandiera sventola a Bruxelles e lo stesso vento si porta via decenni di imparzialità e neutralità.

Resterà invece congelata fino all’estate la richiesta della Svezia, con cui Erdoĝan ha diverse questioni in sospeso. Dopo una lunga trattativa, in luglio i due Paesi chiudono un accordo bilaterale in cui la Turchia si impegna ad “aprire le porte della Nato” in cambio di una politica repressiva nei confronti dei militanti curdi. Per pura coincidenza, il Sultano porta a casa anche l’impegno dell’Unione Europea a “riaprire il procedimento di annessione” e un contratto per 40 jet militari F-16 statunitensi.

Maggio: chi l’ha dura (la testa), la vince (la corona)

Finalmente! Nessuno di noi avrebbe scommesso di vedere alla fine incoronato l’eterno principe ereditario. Un po’ perché si cominciava a credere alla teoria rettiliana sulla immortalità della regina più longeva del Regno Unito, un po’ per il fatto che il “povero” re Carlo III arriva all’abbazia di Westminster, il 6 maggio, alla tenera età di quasi 75 anni. Al suo fianco, la regina consorte Camilla non riesce a nascondere meglio la rivalsa per anni a essere dileggiata, a perdere inevitabilmente l’impietoso confronto.

Giugno: dalla padella alle braci

Il 23 giugno quei bravi ragazzotti della compagnia militare privata Wagner sembrano aver perso la testa, la loro, per cambiare. Dopo una dura lotta per le attenzioni dell’amato Vladimiro tra il ministro della difesa Shoigu e il mitologico ex-cuoco, ex-consigliere, ex-amicone Prigozhin, i soldatini di ventura iniziano un incredibile ammutinamento e una marcia che li porta incontrastati fino alle porte di Mosca.

I soliti tontoloni con l’ottimismo più alto del colesterolo pensano che sia la fine della guerra, che gli americani (strana idea, questa) abbiano sostenuto la rivolta, che Putin sia allo stremo.

E invece, guarda te la vita che sorprese, Putin – nella sua infinita munificenza – perdona i mercenari improvvisamente pentiti e li troviamo tutti allineati nell’esercito regolare. Perfino Prigozhin viene rassicurato che a Mosca sarà accolto come un leale e vero amico. Peccato solo per quell’incidente aereo sopra i cieli della madre patria a rovinare il finale.

Luglio col golpe che ti voglio

Il Sahel separa il Nordafrica dall’Africa sub-sahariana, è una zona calda in tutti i sensi, dove le tensioni politiche sono accompagnate, se non provocate, da interessi economici del tutto esterni: Russia, certo, con la sua Wagner di cui sopra; Cina, con quei suoi contratti di finanziamento scritti molto in piccolo; Europa (chi l’averebbe mai detto?!) per il controllo dei flussi migratori, per gli armamenti. Non manca nessuno.

Il Niger cade il 26 luglio, in seguito a un colpo di Stato condotto dal generale Tchiani, il capo della guardia dedicata a proteggere il presidente Bazoum. Passa ai cattivi l’ultimo baluardo democratico nel Sahel, dopo i numerosi putsch che si sono susseguiti negli ultimi anni. Dal 2020 ci sono stati sei colpi di stato, in quattro Paesi. E no, non c’è errore: Mali e Burkina Faso hanno avuto golpe e controgolpe subito dopo, mentre Sudan e Niger soltanto uno. Per ora.

Agosto: un presidente al fresco

Che l’ex presidente Trump sia sotto processo non fa più notizia, negli USA come nel resto del mondo. Sono tante e diversificate le accuse a suo carico, tutte “senza fondamento” a sentir lui: si va da peccati veniali di natura fiscale, alla conservazione di documenti governativi, fino all’attentato alle istituzioni. I processi vanno in diretta televisiva o se ne vedono i caratteristici reportage all’acquerello dove si svolgono a porte chiuse.

A fine agosto una lente fotografica cattura e allo stesso tempo crea un evento epocale, un ex presidente appare in una foto segnaletica, scattata nel carcere di Atlanta dove si è presentato. Trump ha ora un numero di protocollo carcerario, P01135809 e il suo sguardo di sfida non è poi molto diverso da quello del piccolo spacciatore registrato dopo di lui. La differenza sta in un mondo di privilegio e opulenza, nella smania di potere e controllo. Peccato che la foto segnaletica non sappia cogliere le sfumature.

Settembre: tempo di disastri

Sono i Paesi del Maghreb i protagonisti, loro malgrado, dell’evento ricordato a settembre, con una serie di catastrofi naturali che si susseguono a pochi giorni una dall’altra. Prima il terribile terremoto in Marocco, dove la regione interna di Marrakesh viene rasa al suolo, provocando migliaia di vittime. Poco più a oriente, un ciclone sub-tropicale si abbatte sulla Cirenaica, in Libia, e il crollo di due dighe causa migliaia di morti.

Daniel, il nome dato all’uragano mediterraneo, colpisce anche la parte meridionale della penisola balcanica, la Grecia e la Turchia, arrivando perfino in Egitto. Ovunque si lascia alle spalle devastazione, pioggia torrenziale e inondazioni. Il conto da pagare all’inasprirsi dei cambiamenti climatici, quella bufala che gira da anni, è davvero salato: migliaia di vite perdute o disperse, sfollati che hanno perso tutto, vie e mezzi di comunicazione interrotti. Fortuna che a dicembre negli Emirati si risolve tutto.

October, kingdoms rise and kingdoms fall (U2 – 1981)

Il 7 ottobre Israele si sveglia nel terrore: i terroristi di Hamas sfondano le cospicue barriere che li tengono in una gabbia chiamata Gaza e conducono un attacco contro i kibbutzim in alcune località del sud di Israele, cogliendo di sorpresa le difese armate degli stessi, e un’area dove sono radunati migliaia di giovani. È una strage: Hamas miete 1200 vittime e porta nella Striscia circa 240 ostaggi, non prima di aver violato in ogni modo immaginabile sia i vivi che i morti. Nel nome di un Allah che non ha mai chiesto nulla del genere.

L’attacco di Hamas non ha niente in comune con i precedenti, l’azione è coordinata, organizzata; è chiaro da subito che niente sarà più come prima per entrambe le fazioni che da settant’anni si contendono una striscia di terra secca affacciata sul mare. Israele scatena su Gaza un bombardamento di tale intensità che gli analisti lo paragonano a Dresda, perfino a Hiroshima. Oltre 22.000 morti, di cui il 70% sono donne, vecchi e bambini, milioni di famiglie sfollate. Le bombe sono incalzate dall’incursione di terra, i tank radono al suolo quanto ha resistito all’aviazione, i tunnel vengono allagati. Non c’è rispetto per le vite dei civili, per le organizzazioni umanitarie e gli ospedali. Tutto in nome di un tetragramma, quel YHWH a cui, prima o poi, dovranno rendere conto.

Novembre: il risiko non si ferma

Gli eterni rivali alla conquista del primato nel commercio globale, il presidente cinese Xi e l’americano Biden si incontrano in California, il 13 novembre, per discutere su come smettere di litigare e cominciare invece a spartirsi il bottino. Sono molti i dossier sul tavolo, di carattere economico e anche geopolitico. Si parla di Pacifico, di Global South, ma non si fa cenno al vero tema: Taiwan. Un incontro organizzato per non litigare insomma. Quasi non volessere dare un dispiacere a quel pacifista di Kissinger (citofonare in Vietnam o Cile per conferma), che aveva posto le basi per il disgelo tra i due Paesi negli anni Settanta e sarebbe morto dopo qualche giorno.

Dicembre: COP28 a Dubai, fa già ridere

La 28ma Conferenza delle Parti sul clima punta a un accordo condiviso sul phase-out, ovvero l’eliminazione dei combustibili fossili. Poi però i partecipanti scoprono di essere tutti invitati negli Emirati, che a presiedere sarà il boss della società petrolifera nazionale e ci si deve accontentare della “riduzione del consumo e della produzione di idrocarburi, per raggiungere net-zero di emissioni”.

Prima o dopo, ma insomma intorno al 2050. Tra 25 anni.

Consci di quanto la scena appaia ipocrita e ridicola a un cinico osservatore esterno, gli organizzatori hanno già scelto le prossime destinazioni: la COP29 si terrà in Azerbaijan, terra di gas petrolio e libertà (sognate), mentre la COP30 a Belem, città brasiliana adagiata sulle seconde riserve petrolifere delle Americhe. Con buona pace delle isolette che spariranno nel frattempo.

E il 2024? Un giubileo di elezioni

Davanti a noi si apre un anno storico, sotto il punto di vista delle tornate elettorali, in cui andranno a votare circa 4,2 miliardi di persone, metà della popolazione mondiale. Sappiamo bene delle europee che ci aspettano in primavera e ovviamente anche i più distratti avranno colto che negli Stati Uniti c’è un braccio di ferro in arrivo a novembre, un Trump contro tutti. Anche contro la Corte Suprema, se serve. Ma c’è di più.

Primo in ordine di tempo è Taiwan dove appare concreto il rischio che il partito filo-cinese possa arrivare a vincere, in un modo o nell’altro, con profonde conseguenze politiche, economiche e per i diritti civili. Andranno poi alle urne alcuni tra i Paesi più popolosi del pianeta, come India, Pakistan, Bangladesh, Indonesia e Messico. E tocca votare in otto degli Stati europei membri della NATO cui si aggiungerà probabilmente il Regno Unito. Poi diciotto Stati africani, tra cui il Sudafrica dove l’ANC rischia di perdere la maggioranza per la prima volta dalla transizione democratica del 1994. Infine sei Stati sudamericani, tra cui il Venezuela.

Difficile predire l’impatto di questo tsunami elettorale, alla fine del quale potremmo ritrovare volti nuovi al potere, una generazione politica con idee tutte nuove. Opposizioni con un’occasione di fare bene o pronte a smontare quanto fatto di buono dai predecessori.

L’unica certezza che ci sentiamo di avere è l’inevitabile riconferma di Putin, in elezioni di libero e corretto hanno poco. Accontentiamoci di una piccola considerazione positiva. Per quanto taroccati siano gli esiti, perfino un personaggio come Putin ritiene necessario il voto del popolo a legittimare il potere politico. È un complimento implicito alla democrazia.

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