Su Avvenire.it Ferdindando Camon ragiona sui fatti avvenuti, in provincia di Treviso: la prof mette una nota disciplinare a un alunno, poi quando esce il ragazzo la segue con alcuni compagni, che i giornali chiamano “bulli”, e la minaccia: “Te la faremo pagare!

Più che sulla cronaca della violenza sui docenti, oramai non nuovi né isolati, ci sono due concetti interessanti sulla questione sollevata dall’autore.

Camon sottolinea che la situazione italiana si caratterizza per una situazione peculiare sulla scorta degli esempi di Francia e Germania, dove gli insegnanti godono di una maggiore valorizzazione economica: in un mondo borghese in cui il rispetto è legato al guadagno, il docente povero risulta privo di autorità.

Certo, è una parte del problema. Gli insegnati italiani sono percepiti come mangiapane a tradimento che godono di tre mesi di vacanza: con queste premesse è difficile pensare che il cambiamento economico sia alle porte e, soprattutto, sia dirimente. In primo luogo perché, per molti anni, l’insegnamento è stato a lungo pensato e utilizzato come valvola di sfogo della disoccupazione di genere e di alcune aree del territorio, con un orario delle scuole superiori disegnato apposta per poter essere a casa alle 14, in tempo cioè per preparare il pranzo ai mariti e ai figli, a loro volta di ritorno da scuola.

Sarà uno stereotipo, ma non può essere solo un caso se 8 docenti su 10 in Italia sono donne. Poi perché, per un cambiamento concreto nella percezione di questo lavoro, ci vogliono stipendi migliori che certo non saranno gratis: comporteranno necessariamente un carico orario maggiore, rendendo ancora meno attrattiva una carriera che, peraltro, non comporta prestigio sociale e non prevede avanzamenti di carriera se non per scatti economici di anzianità.

Agenti di cambiamento

Sempre secondo Camon, gli insegnanti non dovrebbero essere percepiti come semplici impiegati, ma come agenti di cambiamento sociale.

Se la scuola deve essere un luogo di vita ed educazione, di cambiamento sociale, servono come minimo spazi da vivere e non solo per il lavoro: il cambiamento deve incidere sulla vita concreta degli alunni, non può essere vissuto appieno con orari da part-time. La scuola nulla ha di tutto questo e non si tratta solo di condizionamento, riscaldamento o della carta igienica, ma di spazi comuni con mense, bar, e soprattutto di luoghi non sorvegliati, dove gli adolescenti possano fare esperienze buone e cattive da esseri umani liberi, conoscenze, confronti, sesso e quant’altro.

Consapevolezza attraverso le esperienze in un Paese come l’Italia dove, oggi, un ragazzino sotto i 13 anni non può nemmeno uscire da solo da scuola: altro che crescita e responsabilizzazione. La priorità è la continuità della custodia, una questione insomma assicurativa, come per i pacchi dei corrieri. Se si rompe, chi paga?

In questo contesto, che già richiede un intervento edilizio ed economico senza precedenti, si innesta il problema dell’insegnamento ed educativo.

Riguardo la percezione sull’utilità e le capacità degli insegnanti vale il motto, diffuso (spesso non a torto), chi sa fa, chi non sa insegna, e chi non sa insegnare, insegna ai formatori. In questo senso, nel tempo, con i concorsi e i corsi abilitanti, molto è stato fatto, ma il giudizio è duro da cambiare. Il problema educativo, invece, nasce dal fatto che per educare, quand’anche volessimo metterla sull’autorevolezza e non sull’autorità, ci vuole comunque un rapporto asimmetrico. Ed invece l’attuale direzione sociale è per la cancellazione dei ruoli e delle posizioni nette sociali, sessuali, fisiche.

L’adulto non ha un sapere esclusivo (basta crescere), non ci sono saperi chiusi (basta la rete), i modelli adulti sono in ogni caso roba per persone che debbono crescere (e chi vuole crescere?). Così, il docente – che dovrebbe anche insegnare la disciplina – giocoforza deve rinunciare o limitarsi molto sull’aspetto educativo, non perché non sia nel suo contratto (anzi, c’è eccome) quanto piuttosto perché depotenziato (ruolo ed età contano relativamente) e soprattutto per l’ostilità delle famiglie, che ritengono questo ambito esclusivamente loro: ce lo dimostrano le battaglie degli ultimi trent’anni contro i docenti comunisti, senza Dio e proni al gender, ovvero portatori di valori contrari a quelli del nucleo familiare; che poi molti di questi siano valori nella Costituzione, pazienza.

Un modello ispirante

Ora, se i ruoli scompaiono – docente allievo, padre figlio, dirigente subordinato – il principio educativo si trasforma in modello ispirante, in esempio non coercitivo. Ma se dovessimo cercare un elemento modellante per la nostra società giovanile non è certo quello del docente, vecchio e idealista, quanto invece il messaggio veicolato dai social: un mondo in cui gli adolescenti devono vivere un’età dell’oro da piccoli principi, le madri devono essere scambiate per sorelle delle figlie mentre i padri cercano relazioni con le amiche delle proprie figlie. E guai a mettersi in mezzo, perché se c’è un problema questo nasce ovviamente dai figli degli altri, perché il proprio pargolo – ça và sans dire – è la primizia del creato.

Sicché il problema segnalato da Camon è di difficile soluzione, perché presuppone che l’italica società decida di scegliere se prendersi le proprie responsabilità e condividere i valori dello Stato – inclusione, responsabilità, rispetto dei diritti e delle differenze – anche nel contesto familiare e in linea con il lavoro degli insegnanti oppure lasciare che la scuola pubblica diventi luogo di acquisizione di competenze trasversali per il mondo del lavoro, lasciando l’educazione e la trasmissione dei valori sociali a Tik Tok. E scegliere è difficile.

© RIPRODUZIONE RISERVATA