Ci sono 1 chilometro e 880 metri in linea d’aria dal Ghibellin Fuggiasco alla nuova stella di piazza Bra, che ha acceso il dibattito pubblico veronese e molti animi nelle scorse settimane.

In Corso Venezia, a distanza di una breve passeggiata dal cuore pulsante di Verona, c’è un vecchio magazzino che è diventato rifugio per decine di persone migranti. Doveva essere un alloggio provvisorio, un appoggio di fortuna messo in piedi dagli attivisti del Laboratorio autogestito Paratodos, visto che quello stabile era abbandonato da decenni.

Dieci, venti, trenta… Sono arrivati a superare i cinquanta, stipati in stanzoni senza un vero riscaldamento, con due bagni disgraziati. Tanto per dire, l’acqua calda funziona con un boiler a legna.

I ragazzi che vivono lì sono tutti immigrati africani, ma non sono degli sbandati: sono in Italia da anni, lavorano, alcuni hanno contratti a tempo indeterminato. Però non riescono a trovare una casa. Le agenzie li rimbalzano. Nessuno gli fa firmare un contratto d’affitto.

Il mercato immobiliare è folle per tutti, per carità. Canoni alle stelle, condizioni fuori di testa. Ma per un immigrato africano trovare un appartamento sembra una missione impossibile.

Certo, quattro mura e un boiler a legna sono meglio di niente. Lo sa bene la città, che deve fare i conti con Abdeljalil Bedaoud, morto di freddo a Verona in questo dicembre.

La situazione del Ghibellin Fuggiasco è nota a tutti: Comune, Questura, Prefettura, associazioni. La proprietà ha denunciato l’occupazione dello stabile. L’amministrazione comunale lo ha visitato. Ma tranquilli, nessuno chiederà di sgomberarli: figuriamoci se si vogliono vedere cinquanta persone in più dormire per strada. Perché il decoro, talvolta, viene prima di tutto.

Lì dentro, però, non ci vivono “migranti”. Ci vivono persone che hanno aspirazioni, sogni, interessi. Gente che raccoglie verze nei campi, costruisce case, carica e scarica i camion per gli spettacoli in Arena. “L’importante è che lavorino”, no? Così “ci pagano le pensioni” e riusciamo a coprire i famosi lavori che gli italiani di nascita non vogliono più fare.

Ma forse non è abbastanza. Senza una casa come si fa a “mettersi a posto”? Come si fa a trovare una stabilità? A costruirsi una vita? I soldi ce li hanno. Pare tanto semplice, eppure non lo è. Eppure ci fa incazzare di più una stella a led.

Una casa che non è una casa” è un mini-documentario prodotto da Sasso d’Adige, a cura di Alessandro Bonfante e Lucrezia Messina, in collaborazione con Heraldo.

Grazie a Bougou Dembele, Philip Gabi, Vincenzo Contreras, Laboratorio Autogestito Paratodos. L’intervista è stata registrata lo scorso 21 ottobre 2023.

Una casa che non è una casa: il video

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