Comandanti coraggiosi
Io capitano e Comandante sono un segnale di come il cinema italiano stia cambiando.
Io capitano e Comandante sono un segnale di come il cinema italiano stia cambiando.
Il cinema italiano sta cambiando, e per il meglio: lo sappiamo da tempo, ma la cosa sta diventando via via sempre più evidente con l’avvento di una generazione di autori con un piglio internazionale e la voglia di realizzare film in grado di sbarazzarsi di quell’aura provinciale che, spesso, ci ha fatto dire «Si vede che è un film italiano», la peggiore delle critiche che si possa muovere a un film che abbia delle velleità autoriali.
Il problema del cinema italiano è in realtà un problema generale della cultura italiana, quel bisogno innato di fare gatekeeping, di separare l’alto dal basso e sottolineare per bene quando siamo di fronte a “cultura popolare” versus la cultura alta, importante, quella vera che si può discutere nei salotti.
Quando Gabriele Salvatores, parlando del suo Il ragazzo invisibile, diceva (parafrasiamo) «Questo è un film di supereroi, ma ha anche un messaggio!», inconsapevole del fatto che sulle storie di supereroi con messaggi Stan Lee ci aveva costruito una carriera, stava partendo dallo stesso bias con cui tanta parte dell’intellighenzia italiana ha sempre guardato al fumetto, al cinema di massa, a tutto ciò che nasce con l’idea di divertire prima e magari “fare anche riflettere” poi.
Questo problema è diventato evidente sul finire degli anni ’70, quando l’industria dei generi italiani si è schiantata sotto la sua stessa bulimia e i vari Nanni Moretti, Marco Bellocchio e Gianni Amelio sono emersi come l’unica alternativa possibile. Si è presa una strada precisa, allo scoccare degli anni ’80: l’epoca del cinema popolare era finita, ora era il turno degli autori.
Ma questo bivio è un’idea completamente italiana, perché all’estero non ci si è mai posti il problema: gente come Stanley Kubrick, John Carpenter, Steven Spielberg e Walter Hill ha sempre fatto film d’autore e di genere, perché, giustamente, una cosa non esclude l’altra. In Italia, per qualche ragione, dopo il 1980 la cosa non è più stata reputata possibile. Uniamo a questo un problema strutturale e tecnologico – siamo passati in breve da film totalmente doppiati in post-produzione a film in presa diretta senza avere l’esperienza tecnica adeguata per farlo – ed è evidente come, per tanto tempo, i film italiani li si poteva individuare da un’inquadratura.
Le cose, dicevamo, stanno ora cambiando. I pionieri sono stati Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, autori che da subito hanno cercato di fare un cinema più internazionale e scattante, pur non nascondendo il loro DNA. Quella lezione è stata introiettata dal cinema italiano e, con l’avvento di registi come Stefano Sollima e Gabriele Mainetti, finalmente il muro che divideva cinema di genere e d’autore è stato abbattuto.
Questa lunga premessa ci serve per parlare di due film, usciti nelle ultime settimane, che usano il genere per parlare di importanti temi d’attualità, sfatando per sempre un altro grosso problema del nostro cinema, cioè l’idea che un film, per essere meritevole, debba essere uno strumento educativo.
Sia chiaro, non c’è niente di male se un autore decide di realizzare un film a tesi: il problema, se mai, è quando lo stesso autore si sostituisce allo spettatore e pretende di tirare le somme per lui. Un film non dovrebbe mai farlo, altrimenti smette di essere cinema e diventa un video di pubblica utilità. Nel nostro Paese, forse anche per colpa delle fiction televisive, questo rischio c’è sempre stato.
Io capitano e Comandante evitano questa trappola. Sin dal titolo, il film di Garrone e quello di Edoardo De Angelis hanno molto in comune. All’apparenza sono molto diversi, eppure parlano della stessa cosa, l’immigrazione clandestina e il dibattito politico intorno a essa, dai due punti di vista opposti: da un lato quello delle persone che attraversano l’Africa, e poi il Mediterraneo, nella speranza di rifarsi una vita in un posto migliore.
Dall’altro quello di noi italiani. In Comandante, la storia di Salvatore Todaro e del sommergibile Cappellini è un’allegoria della risposta della politica italiana (ed europea) al fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta di esseri umani.
E non è che sia sottilissima, questa allegoria: De Angelis e lo sceneggiatore Sandro Veronesi fanno ribadire più volte a Todaro (Pierfrancesco Favino con un dignitoso accento veneziano) il concetto che la legge del mare fa storia a sé, che le navi si affondano ma le persone si salvano. La spina dorsale morale (in un uomo, non a caso, con gravi problemi fisici) di Todaro è evidentemente, secondo De Angelis e Veronesi, quella che manca ai nostri politici oggi. Ed è davvero ironico che, in questo preciso momento storico, sia un film incentrato su un ufficiale fascista virtuoso a raccontarlo.
Io capitano è invece raccontato dal punto di vista di due ragazzi che dal Senegal attraversano l’inferno per arrivare in Italia. È un film italiano, ma, come Comandante, “non sembra un film italiano”, nello specifico perché non è recitato mai in italiano. Se Comandante è un film di sottomarini, Io capitano è un road movie che segue tutte le regole del caso. Un’avventura drammatica eppure molto ottimista, che non cerca di impietosire, rifugge il ricatto morale e mette invece in scena la presa di coscienza del protagonista (l’eccezionale non professionista Seydou Sarr), il suo arco di maturazione verso una maggiore consapevolezza di chi gli sta intorno, l’accettazione della responsabilità che tutti abbiamo verso gli altri.
Entrambi i film ci dicono che, indipendentemente dalle filosofie, dai credi e dalle leggi scritte, la prima legge della convivenza civile è sempre quella dell’empatia.
Entrambi, dunque, partono dal contingente per trascendere verso l’universale, come fanno i film migliori, senza lasciarsi appesantire da messaggi forti, senza puntare il dito o forzare la morale. Lasciano parlare i loro protagonisti, imperfetti, umani, e lasciano che sia il pubblico a tirare le conclusioni.
Garrone sicuramente più di De Angelis e Veronesi, che calcano la mano nei dialoghi, ma il fatto che il portavoce del messaggio sia un ufficiale dell’esercito fascista è sufficiente a salvare Comandante dalla pedanteria.
E in tutto questo sono dei film appassionanti! Sono film che non dimenticano di intrattenere lo spettatore, di emozionarlo, di trascinarlo sulle montagne russe e di bombardarlo di belle immagini. Il cinema è anche questo, altrimenti davvero basterebbe guardarsi una puntata di Report.
Ci saranno sicuramente altri film, nei prossimi anni, che affronteranno questo argomento, ma Io capitano e Comandante hanno stabilito un precedente e resteranno un modello da seguire.
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