Qualche giorno fa, il presidente ucraino Zelenskiy ha riportato in primo piano l’annosa questione della sopravvenuta inadeguatezza delle istituzioni internazionali. Ha detto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che «l’unico modo di portare la pace e impedire nuove aggressioni passa attraverso una riforma fondamentale» dell’ONU stessa.

Si riferisce al fatto che qualsiasi iniziativa per fermare l’invasione si sarebbe inevitabilmente schiantata contro il cosiddetto diritto di veto. Proviamo a chiarire meglio di cosa si tratta.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite

Costituita nel 1945 con negli occhi l’orrore della Guerra, ha la missione di mantenere la pace e la sicurezza globali, favorire lo sviluppo di relazioni positive tra i 193 Stati membri (più due osservatori: Palestina e Vaticano) e la cooperazione internazionale.

Si articola in vari organi con funzioni specifiche, tra Assemblea generale e Consiglio di sicurezza. La prima rappresenta il principale braccio decisionale ed è composta da tutti gli stati membri, ognuno con un unico voto. Si occupa di questioni amministrative (ammissioni, budget, nomine) e, più interessante ai nostri fini, delibera le “raccomandazioni” per gli Stati membri e segnala situazioni di crisi al Consiglio di sicurezza, in quanto unico organo autorizzato a emettere risoluzioni obbligatorie e vincolanti per gli Stati coinvolti.

I limiti del Consiglio di sicurezza

Il Consiglio è composto da cinque membri permanenti (Cina, Francia, Russia, Regno Unito e USA) e dieci membri eletti a rotazione dall’Assemblea generale, secondo specifici criteri di rappresentanza regionale. I membri permanenti possiedono il vituperato diritto di veto, cioè la possibilità di bloccare qualsiasi risoluzione il Consiglio intendesse adottare.

È evidente il paradosso lamentato da Zelenskiy: una risoluzione contro la Russia, per fermare la sua invasione dell’Ucraina, dovrebbe trovare d’accordo proprio la Russia, in un corto circuito senza uscita. La stessa situazione si riproporrebbe per qualsiasi altra disputa che veda protagonista un membro permanente.

Istituzione necessaria, struttura obsoleta

La composizione del Consiglio di sicurezza è rimasta immobile, riflette gli equilibri della conferenza di Yalta (1945) una visione condizionata dal peso statunitense. Di riforma si parla ormai da molti anni, fin dalla dissoluzione dell’URSS e l’argomento riaffiora ogni volta che sulla scena internazionale compaiono nuovi attori o nuove alleanze. O scoppiano nuove guerre.

Il mondo non è più quello di una volta: non è accentrato su due superpotenze come nella Guerra Fredda e non si può forse nemmeno più parlare di multipolarità, vista l’attuale frammentazione in numerose e mutevoli aree di influenza. Ma l’esito non cambia e, dopo lungo dibattere sulla riforma, tutti (o quasi) sono d’accordo che sia necessaria, che vada genericamente ampliato il numero degli Stati in Consiglio. Niente su come riorganizzarlo e ancora meno sul veto.

Altra roba da restaurare

Un ragionamento analogo, applicato alla finanza globale, vale per le cosiddette “istituzioni di Bretton Woods”, luogo dove, nel 1944, si riunirono 44 nazioni per concordare un sistema valutario che favorisse la ripresa del commercio. L’economista inglese Keynes propose la creazione di una banca centrale globale e di una moneta nuova per le riserve degli Stati, mentre l’americano White puntava alla centralità del dollaro statunitense. E vinse.

Nel 1958 il dollaro fu agganciato al valore dell’oro e le altre monete ancorate al dollaro, con indubbi benefici in termini di minor volatilità e per il commercio globale. Fino a quando Nixon, nel 1971, sospese la convertibilità del dollaro in oro e il sistema implose. Divagazione, certo, ma funzionale a rimarcare il peso degli Stati Uniti nell’influenzare le scelte mondiali.

Tornando al nostro bel mondo antico, furono gli Accordi di Bretton Woods a istituire il Fondo Monetario Internazionale (IMF), con compiti di supervisione sui tassi di cambio e di sostegno alle nazioni in difficoltà, e la Banca Mondiale, destinata a gestire i fondi raccolti tra gli Stati membri per la ricostruzione fisica e finanziaria del secondo dopo-guerra.

Mondo nuovo, equilibri in evoluzione

L’incapacità di tutte le istituzioni citate sopra di rendersi conto di una realtà profondamente cambiata è alla base delle principali critiche al loro (mal)funzionamento. Oltre al paradosso del potere di veto, ricordiamo i numerosi attacchi (per ultimo dal presidente tunisino Saied) contro le condizioni vessatorie che IMF impone per deliberare gli aiuti economici, “taglie uniche” che non tengono conto delle diversità tra i singoli Paesi.

E non tralasciamo la burocrazia infinita e gli scandali ricorrenti nella Banca Mondiale, i ritardi nell’erogare i finanziamenti, che finiscono spesso per arrivare quando ormai è tardi o nelle tasche sbagliate.

Ma la cosa più eclatante forse riguarda il “peso” specifico di certi Paesi all’interno delle organizzazioni, assolutamente sproporzionato rispetto alla loro dimensione politica ed economica. Paesi le cui continue e ripetute rimostranze sono state ignorate dallo status quo o accolte solo a parole, senza un vero cambiamento.

Esemplare in questo senso il caso dei cosiddetti BRICS, acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Nazioni che è ormai davvero riduttivo definire emergenti.

I BRICS la fanno grossa!

Si parlava di loro come degli Stati emergenti, che avrebbero dominato la scena entro il 2050, un tempo abbastanza lungo da non spaventare più di tanto. Ma a suon di risorse naturali strategiche, di PIL in continua crescita e di quote sempre più ampie del commercio globale, stanno anticipando i tempi. Sono “emersi”, se permettete il giochino di parole.

E non è difficile comprendere il loro risentimento verso l’ONU e le istituzioni finanziarie che sentono come un freno alla loro ascesa. Chi ha gestito l’ordine internazionale liberale sancito in quegli statuti viene percepito come lontano dalla realtà di una nuova distribuzione economica globale. Diamo i numeri, che aiutano sempre a dare contesto e prospettiva. Non è una critica, un’accusa, si tratta di fatti sotto gli occhi di tutti.

Il potere dei BRICS semplicemente non corrisponde al loro peso economico. Prendiamo la Cina, per esempio. Ha il 5% di potere di voto nelle delibere finanziarie della Banca Mondiale, con un prodotto interno lordo che rappresenta circa il 16% del PIL globale.

Stesso peso economico degli USA, che però detengono voti allineati alla quota di PIL (16%). Le nazioni del G7 tutte insieme cumulano un altro 16% del PIL mondiale ma hanno il 25% dei voti. E poi qualcuno dice che i BRICS non si dovrebbero innervosire.

L’allargamento del Sud Globale

Il presidente cinese Xi Jinping ha definito il recente vertice dei BRICS un evento “storico”, in quanto ha sancito l’ingresso di nuovi membri (Arabia Saudita, Argentina, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Etiopia e Iran) e raccolto formali richieste di adesione da altri quindici Paesi di tutto il mondo. I BRICS aggiungono “mattoni” alla nuova struttura economica e politica mondiale.

Braccio finanziario di questa nuova potenza in evoluzione è la New Development Bank, fondata nel 2014 e da poco presieduta dalla signora Rousseff, ex presidente del Brasile. Nata come alternativa a Banca Mondiale e IMF, la banca ha creato un fondo strategico per il finanziamento di progetti infrastrutturali nei Paesi membri e nelle nazioni in via di sviluppo, ma anche per il sostegno della possibili crisi valutarie o di liquidità in dollari, ancora e nonostante tutto principale valuta degli scambi internazionali.

La NDB obiettivamente sembra replicare alcuni dei difetti più evidenti delle istituzioni di Bretton Woods ma è giovane e ha tutto il tempo per correggere il tiro.

Il peso dei BRICS

Gli undici Stati del gruppo allargato cubano il 47% della popolazione mondiale, con un potere di acquisto paragonabile a quello dei Paesi industrializzati, e produrranno circa un terzo del PIL globale. Qualche dubbio ai “soliti noti” potrebbe venire, con una tale dimensione, ma forse siamo fuori tempo per riportarli a bordo di istituzioni che mostrano diverse crepe.

A favore dello status quo gioca il fatto che i nuovi BRICS dovranno decidere cosa diventare, se un reale attore geopolitico oppure una sorta di piattaforma per coordinare progetti economici e finanziari per il Global South, e limitarsi a pretendere più voce e rappresentanza nelle istituzioni esistenti.

Per consolidare una visione strategica, vanno prima risolte numerose tensioni tra i membri. Pensiamo alla diga tra Etiopia ed Egitto, alla rivalità tutta islamica tra Arabia Saudita e Iran, ma anche ai fronti opposti degli Stati membri su diverse dispute (Yemen per Arabia ed Emirati, le zone dell’Himalaya tra Cina e India, solo per citarne un paio). Senza un accordo su quei temi, l’azione collettiva del gruppo risulterebbe impacciata.

Un compromesso geopolitico

L’alternativa consiste nel cogliere l’insegnamento dei tantissimi “governi di unità nazionale” e individuare di volta in volta temi e questioni unitarie, su cui mostrare la dovuta coesione in vista del risultato. E uno di questi argomenti potrebbe, chissà, riguardare proprio la riforma del Consiglio di Sicurezza ONU.

Uno smacco all’immobilismo del blocco post-bellico e un’occasione per riprendersi il posto che meritano al tavolo dei grandi. Piccolo dettaglio: sul potere di veto già i cinque membri storici avevano posizioni opposte, ora con l’ampliamento sarà pure più complicato.

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