Io Capitano è il primo film di Matteo Garrone a essere presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Habitué del Festival di Cannes, il regista romano ha posto al centro della sua filmografia il racconto delle periferie italiane, un sottobosco popolato da creature provenienti da favole nere scritte dai cantori della strada.
Reality, L’imbalsamatore, Dogman sono tutti film che collimano il reale con il fantastico, la crudezza delle immagini con la grazia del sentimento dei personaggi freaks messi in scena. Con Io Capitano Matteo Garrone inizia un nuovo percorso, facendo della classicità del racconto il punto di partenza per centellinare le digressioni oniriche in alcuni momenti di iato che forniscono respiro alla pesantezza della vicenda raccontata. La storia del viaggio dal Senegal in Italia di Seydou e Moussa è il dietro le quinte delle notizie degli sbarchi a cui assistiamo, ormai, catodicamente in televisione.
Una disperata favola di Collodi
L’odissea omerica dei due cugini parte proprio come un viaggio mitologico verso una terra promessa in grado di garantire solidità economica a chi, invece, rimane a casa. Procedendo per tappe, come nel più convenzionali dei road movie, Garrone intercetta perfettamente la disillusione nei confronti del futuro dei due cugini, partiti con l’idea di «Firmare gli autografi ai bianchi» salvo poi salpare in un mare di deserto e morte. Sembrerebbe quasi che il regista abbia voluto trasportare la favola di Pinocchio (ultimo film da lui diretto) in Africa, dove però il Paese dei balocchi è un campo di prigionia libico e la fata turchina un muratore con una famiglia numerosa da mantenere. L’inganno del Gatto e la Volpe è fatale e la balena diventa un barcone troppo piccolo per contenere le speranze di tutte le persone a bordo.
La struttura classica del racconto scelta da Garrone è perfettamente funzionale alle immagini a cui assistiamo, mai compiaciute – il caso di pornografia del dolore in questi casi è molto alto – nel mostrare la miseria di un mondo così vicino geograficamente dall’Italia eppure così distante economicamente. Io Capitano procede quindi come lo immaginiamo vedendo il trailer, non cercando mai di forzare la lacrima allo spettatore ma limitandosi – giustamente – a far parlare la storia e le sue immagini. Immagini che trovano il loro apice di potenza visiva in due momenti completamente differenti fra di loro. Il primo durante il campo di prigionia in Libia, dove Garrone sembra ritornare al disagio umano de L’imbalsamatore. Il secondo nel viaggio finale in mare, in cui la grandezza del meditteraneo si scontra con l’asfissiante immagine del barcone pieno di migranti.
Il primo piano straziante di Seydou a fine film è il volto di un intero mondo che trova la propria voce nell’urlo «Io, Capitano! Io, Capitano!».
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