In Ucraina l’autunno inizia il primo di settembre, ed è il giorno in cui ricomincia l’anno scolastico. Quest’anno, molti bambini non sono potuti essere nel cortile della scuola per la tradizionale festa d’inaugurazione dell’anno scolastico. Alcuni sono profughi all’estero, altri non ci sono più perché sono stati uccisi.

Ci sono però due ragazzini, Niki e Vika, che hanno un motivo speciale per non esserci: sono andati a Venezia, per presentare un film di cui sono protagonisti. Il primo di settembre, infatti, Photophobia è stato presentato al pubblico alla ottantesima Mostra d’arte cinematografica di Venezia.

La stazione degli eroi

Grazie ai registi slovacchi Ivan Ostrochovský e Pavol Pekarcik, e al loro piccolo capolavoro, i due piccoli attori, insieme agli spettatori che hanno riempito la sala, per 71 minuti (la durata del film) sono tornati sotto terra. La stazione che è diventata loro rifugio è “Heroiv Truda”, ovvero “Eroi del lavoro”, un nome quanto mai azzeccato per il capolinea della metro che porta a Saltivka, uno dei più grandi quartieri residenziali proletari di Kharkiv.

In agosto sono stata in quella stazione più volte, e in una di quelle sono caduta sui gradini. Il piede mi fa ancora male, ma questo dolore è nulla rispetto alle cicatrici sul cuore dei protagonisti di questo delicatissimo documentario, che segue la vita delle persone rifugiate nella metro in primavera del 2022.

Vivere nel sottosuolo

Più che seguire, la cinepresa ci vive insieme. Non so come abbia fatto l’operatore a diventare trasparente, quante ore di riprese avesse girato, quanti fossero i volti, i corpi, i destini rimasti fuori dal montaggio finale.

Photophobia locandina
La locndina del film Photophobia, presentato alla Mostra del cinema di Venezia 2023.

Il risultato è una storia leggera e luminosa, con un tocco di magia.

Quasi l’intero film è ambientato dentro la stazione, ed è stato girato fra aprile e giugno dell’anno scorso, nella stagione più calda dei bombardamenti a Kharkiv. I registi, mossi dal dovere di documentare gli eventi, sono andati nell’epicentro del pericolo. Finite le riprese hanno composto gli stralci di realtà in una narrazione dell’umanità che emerge, nei tempi oscuri, anche sotto i missili. Letteralmente, sotto.

Per la colonna sonora, non c’è bisogno di effetti speciali. Roman Kurhan e Michal Novinski ci regalano anche musiche originali di struggente lirismo, ma il resto è fatto di boati e bisbigli, stridore e sospiri.

Sembra ci sia un gigantesco treno che passa sopra la stazione: solo che i treni in realtà sono fermi, nascosti nei tunnel per diventare, a loro turno, un nascondiglio per i rifugiati.

Sotto terra per sopravvivere

Di questa stazione della metro scopriamo tutti gli angoli: i cunicoli tecnici inaccessibili ai passeggeri e le sale di transito di solito dinamiche, ora bloccate in una dimensione surreale del tempo sospeso. La stazione, costruita negli ultimi anni dell’Unione Sovietica, è arredata con il massimo sfarzo: granito, marmo, ferro battuto, bassorilievi in porcellana.

L’invasione russa l’ha trasformata in un dormitorio: nei corridoi, i negozi di solito aperti sono serrati, i tornelli sono spalancati. In questo mondo al rovescio, generato dalla violenza, l’aria aperta e il cielo luminoso sono forieri di pericoli, mentre il non-luogo sotterraneo, abitualmente frettoloso e impersonale, diventa l’arca di solidarietà e di speranza.

Il sogno di normalità

Le attività normali come tornare a casa, fare un giretto al parco, diventano un sogno proibito: dal 24 febbraio 2022 la popolazione civile è nel mirino degli invasori. Rendersi conto che non si torna indietro, che la casa non c’è, è difficile. Noi, spettatori, – e i protagonisti presenti in sala – sappiamo già che la realtà abituale in quei giorni ha subito una scossa tellurica.

Nel continuum spazio-temporale della narrazione, loro non lo sanno ancora. Si aggrappano alle abitudini quotidiane: cucinare la cena, misurare la pressione, fare i compiti, lavarsi i denti, giocare con il telefonino, girare i video di TikTok. Questa realtà può anche essere divertente.

Un’altra scena del film Photophobia, foto di Pavol Pekarčík, copyright Punkchart films.

Un microcosmo che lotta anche con l’allegria

L’arrivo dei numerosi reporter stranieri, vestiti in modo impeccabile, fa divertire i bambini che li imitano giocosamente. Ma il colmo di allegria arriva con un estroso anziano fisarmonicista che inganna l’attesa, cantando le canzoni d’amore sovietiche e corteggiando le attempate vicine. Anche Nikita, seguendo i consigli dell’arzillo musicista, cerca e trova l’anima gemella, condividendo con la coetanea Vika le gioie e le tristezze.

Spontaneamente, nella stazione si crea un microcosmo senza barriere, dove le persone abituate a vivere ciascuno a casa propria si ritrovano rovesciate all’esterno e rimescolate loro malgrado. Giovani e anziani dormono fianco a fianco; perfetti sconosciuti si fanno confidenze; gatti e cani guardinghi e stressati completano la piccola babele fatta di tende e sacchi a pelo.

C’è poco di normale nello stare ammassati, ignari della sorte dei propri cari fuori dal rifugio. Eppure, è molto meglio del mondo esterno, dove le madri muoiono coi neonati in braccio e i ponti crollano sotto gli occhi allibiti di chi pensava di attraversarli.

Il trailer di Photophobia dei registi slovacchi Ivan Ostrochovský e Pavol Pekarcik è stato presentato al pubblico della Mostra internazionale del cinema di Venezia lo scorso 1 settembre, in concomitanza con l’inizio dell’anno scolastico in Ucraina.

Niki vs. Yurik: due approcci al dramma della guerra

Niki, il dodicenne protagonista, non sa quello che sanno i grandi. Non a caso i suoi per telefonare cercano sempre di appartarsi, onde evitare che i figli sentano degli orrori del mondo esterno. Un visualizzatore delle diapositive tascabile, trovato da Niki, diventa una finestra immaginaria che collega il protagonista con l’esterno, e con tutte le altre anime che osservano la rovina del proprio mondo.

Grazie a questo espediente si aggiunge un tocco di realismo magico alla cruda cronaca degli eventi. Il film non esula, però, dall’ambito del cinema-verità, teorizzato da Edgar Morin su esempio di Dziga Vertov, cineasta ucraino d’avanguardia.

La polemica ucraina intorno al film “Yurik”

Questa scelta non è per niente scontata: la tentazione di sfornare film, cavalcando l’onda dell’interesse verso l’Ucraina, è forte. Infatti, negli stessi giorni della première, in Ucraina infuria uno scandalo legato all’uscita del film “Yurik”, in cui, con le migliori intenzioni, si racconta una storia vera con i dettagli e gli accenti falsi.

Partendo da Mariupol, l’undicenne Yurik cerca di ritrovare la sua famiglia, arrivando da solo fino alla frontiera polacca. I casi di questo tipo ci sono stati, non è una esagerazione. Il trailer riporta una storia tragica, che corrisponde alla nostra idea degli eventi in Ucraina. Allora, che cosa è andato storto?

L’opinione comune ucraina è unanime: il film ha edulcorato la realtà, e gli errori fattuali dell’ambientazione sono tanti da rovinare l’intento umanitario del film. I registi, ucraini peraltro, ambientano le scene nei rifugi comodi, ben riscaldati ed illuminati, dove la gente ha cibo da cucinare e rete per fare telefonate.

Una delle immagini simbolo del film per la Tv Yuryk realizzato da Osnova Film Production insieme al canale televisivo ucraino privato Stb.

Sembra che sia la permanenza a Mariupol che l’evacuazione non siano state in fondo così difficili, e che le persone rimaste l’abbiano fatto volentieri. Chiunque sia stato nelle città ucraine vicine al fronte, percepisce la falsità di questa premessa. L’indignazione della società civile è stata così forte che gli autori del film hanno dovuto cambiare il testo d’apertura. “Basato sulla storia vera” è diventato “Non è una cronaca degli eventi e non rispecchia le tragedie reali che hanno causato i militari della Federazione Russa a Mariupol”.

Gli autori di “Photophobia“, invece, hanno evitato la trappola della semplificazione o della morbosa attenzione verso la sofferenza, e hanno raccontato sinceramente l’infanzia in guerra attraverso il prisma dell’empatia e del rispetto.

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