In direzione ostinata e contraria, sempre. Al contrario, mai
Dare un nome preciso alla violenza, in tutte le sue forme. È questo il primo passo per combattere il mostro che - purtroppo - pervade ancora in profondità la nostra società.
Dare un nome preciso alla violenza, in tutte le sue forme. È questo il primo passo per combattere il mostro che - purtroppo - pervade ancora in profondità la nostra società.
È ancora molto difficile riconoscere la violenza e questo rende faticoso parlarne. Quando accade, il più delle volte, è riferita a fatti di cronaca infarciti di ipotesi o, peggio ancora, di tesi sul movente (che spesso ha il sapore di giustificazione) che l’ha palesata.
Comprendere la violenza, invece, costringe a porsi delle domande scomode che pretendono il coraggio di confrontarsi con la cultura della violenza che permea la quotidianità delle piccole cose ed è inevitabilmente presente, passato e futuro. Di ciascuno di noi.
Sì, la violenza appartiene a tutti; è, come dice il dottor Daniele Vasari psicologo psicoterapeuta fondatore del CTM (Centro Trattamento Maltrattanti di Forlì) “democratica, non è un qualcosa che capita, un fenomeno che interessa solo alcune fasce socio-culturali o l’altro/a”. È una scelta che, se trascurata e non riconosciuta, è libera di agire o subire. Si annida nei meccanismi più profondi, traducendosi in comportamenti e parole che culturalmente vengono accettati e con il tempo preparano il terreno al tollerala e giustificarla.
Basti pensare al modo in cui ancora oggi ci si riferisce ai maltrattanti e agli autori di violenza: mostri, psicopatici, che agiscono in nome della rabbia, di un amore ferito o sull’onda di un raptus (il raptus in questi casi non esiste).
E cosa dire del modo in cui le donne vittime di violenza subiscono una vittimizzazione secondaria: chi mai si sognerebbe di porre domande scomode, quasi accusatorie (sottintendendo un atteggiamento complice), al gioielliere a cui un ladro ha sfondato la vetrina per rubare la merce esposta?
Patologizzando, confinando dentro a determinate aree geografiche o cercando cause “altre” che in qualche modo rendano conto dei fatti, si perde di vista che, in realtà, la violenza non è un qualcosa che capita all’improvviso e solo in determinate situazioni psicopatologiche, socio-culturali o geografiche. E soprattutto che non deve essere la risposta.
Riconoscerla come vero problema, il risultato di una cultura che la ammette e la giustifica, permette di vederla, stanarla, e apre ad un atteggiamento di “tolleranza zero” che nulla a che fare con il solo inasprimento della pena e tantomeno con la castrazione chimica. Questi sono solo un palliativo che non risolve il problema e nemmeno lo argina.
È certamente necessario riconoscere come colpevole chi commette violenza che, per questo, deve rispondere delle proprie azioni; ma la tolleranza zero deve riguardare un’inversione di rotta, risalendo controcorrente la cultura della violenza con quella del rispetto, dell’educazione alle emozioni e ai sentimenti.
È importante, per esempio, cominciare a dare un nome preciso a ciò che accade, partendo con il riconoscere che dinamiche di potere e controllo (uno spintone, uno schiaffo, un calcio, un insulto, l’umiliazione e le minacce) appartengono alla violenza, non alla rabbia, e meritano quindi di essere prese in considerazione con molta attenzione. Si può essere arrabbiati o passionali, ma non agire violenza. È necessario stoppare fin da subito ogni più piccola manifestazione violenta, comprendendone il più possibile l’origine che si nasconde dietro alla cultura “del più forte” e patriarcale, in modo tale da non giustificarla.
La violenza è di fatto una scelta (per entrambe le parti) che diventa obbligata quando non la si riconosce come tale. E questo fa saltare il ponte che unisce la realtà interna a quella esterna, sfociando in una semplificazione cognitiva che porta da una parte chi commette azioni violente a considerare l’altro, il suo atteggiamento, o una determinata situazione come il problema scatenate e dall’altra chi subisce a sentirsi il colpevole, il problema. Diventa un rischioso e, talvolta, micidiale circolo vizioso.
È una cultura che considera le minoranze come inferiori o il diverso, lo sconosciuto, l’altro da sé come pericoloso. E le donne inferiori, destinate solo a precisi ruoli all’interno della società. Chi si oppone può aspettarsi ritorsioni che vanno dall’esclusione sociale, alla violenza fisica fino all’uccisione.
Bisogna prendersene cura, lavorando sulla consapevolezza e trovando un’alternativa. Nelle scuole, sui media, nel linguaggio, in ogni occasione possibile; ricordando che riguarda tutti, che è presente anche dentro di noi, in modo tale da impedire che prenda il sopravvento.
Riprendendo la risposta che è stata data all’affermazione a dir poco bizzarra, forse superficiale, di certo violenta di Andrea Giambruno, è vero che Cappuccetto Rosso non era ubriaca quando ha incontrato il lupo, ma è altrettanto vero che non lo conosceva affatto. Siamo, però, abituati a considerare i vari personaggi di una fiaba come presi in sé e per sé e non come componenti simboliche, per esempio, di un maschile e femminile presenti nella psiche sia delle donne che degli uomini; e tantomeno siamo abituati a pensare al sistema fiaba (Cappuccetto-la nonna-il Lupo-il Cacciatore).
Come a dire per esempio, che da una parte un uomo, riconoscendone l’esistenza dentro di sé, può scegliere se essere il lupo che seduce, manipola e poi aggredisce o il cacciatore che, attento e pronto, da tempo alla ricerca del lupo, coglie il pericolo e con azione demiurgica fa ri-nascere dalla pancia del lupo stesso un nuovo femminile, non solo fuori ma soprattutto dentro di sé. Così poi “erano contenti tutti e tre”.
E dall’altra una donna può scoprire che esiste anche dentro di sé un maschile “buono” e uno “cattivo” e, dando vita ad un nuovo femminile, è in grado di riconosce anche fuori da sé ciò che è violento da ciò che non lo è.
Tant’è che la famosa fiaba nella versione originale dei fratelli Grimm, continua così: “Raccontano pure che una volta Cappuccetto Rosso portava di nuovo una focaccia alla vecchia nonna, e un altro lupo le aveva rivolto la parola, cercando di convincerla a deviare dal sentiero. Ma Cappuccetto Rosso se ne guardò bene, andò dritta per la sua strada e disse alla nonna di aver visto il lupo che l’aveva salutata, guardandola però con occhi feroci: “Se non fossimo stati sulla pubblica via, mi avrebbe mangiata!” – “Vieni,” disse la nonna, “chiudiamo la porta perché‚ non entri.” Poco dopo il lupo bussò e disse: “Apri, nonna, sono Cappuccetto Rosso, ti porto la focaccia.” Ma quelle, zitte, non aprirono; allora il malvagio gironzolò un po’ intorno alla casa e alla fine saltò sul tetto per aspettare che Cappuccetto Rosso, a sera, prendesse la via del ritorno: voleva seguirla di soppiatto per mangiarsela al buio. Ma la nonna capì le sue intenzioni. Davanti alla casa c’era un grosso trogolo di pietra, ed ella disse alla bambina: “Prendi il secchio, Cappuccetto Rosso; ieri ho cotto le salsicce, porta nel trogolo l’acqua dove han bollito.” Cappuccetto Rosso portò tanta acqua, finché‚ il grosso trogolo fu ben pieno. Allora il profumo delle salsicce salì alle narici del lupo; egli si mise a fiutare e a sbirciare giù, e alla fine allungò tanto il collo che non poté più trattenersi e incominciò a scivolare: scivolò dal tetto proprio nel grosso trogolo e affogò. Invece Cappuccetto Rosso tornò a casa tutta allegra e nessuno le fece del male”
La pubblica via non va intesa come l’educazione alla prudenza della donna, unica possibilità contro la violenza, ma il rendere manifesto, conosciuto a sé stessi, uomini e donne, che il lupo esiste: solo così è possibile riconoscerne gli occhi feroci. Solo così possiamo agire “in direzione ostinata e contraria … servi disobbedienti alle leggi del branco”
Un grazie al dr. Daniele Vasari, psicologo psicoterapeuta, fondatore CTM Centro Trattamento Maltrattanti di Forlì (www.danielevasari.net) e al Dr Giovanni Frigo, psicologo, psicoterapeuta e antropologo. Un grazie a Fabrizio de André, alla sua Smisurata preghiera.
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