Ricordo benissimo, quando andai al cinema a vedere “Sole a catinelle”, di Checco Zelone. Ad un certo punto il protagonista si ritrova ad una sorta di serata di beneficienza con imprenditori e ricconi vari, in un contesto da business padano, con spolveratina radical chic. Checco prende la parola e decide di “dare delle risposte”. E quando parla delle imposizioni europee, sotto l’acronimo ignoto ai presenti “HACCP”, per le quali se produco una mozzarella devo specificare “che è fatta da una certa muccache abita in un certo paese, che il latte è stato conservato in una cella frigorifera ad una certa temperatura, sterilizzato secondo le norme comunitarie” inevitabile è la gag finalea “MANGIA LA MOZZARELLA E VAFF*** A MAMMETA!”.

E il pubblico in sala rise. E io risi, a mia volta, quella sera al cinema.

E quando poi Checco, nella sua accoratissima arringa, si riferisce alla dipendente messa incinta dal marito, per colpa della quale “IO devo pagare gli assegni familiari, IO devo sostituirla, IO devo pagare la formazione a chi la sostituisce, IO devo reintegrare, IO devo re-informarla, perché intanto ha dimenticato… allora, cari signori, sapete che vi dico? Operaia, te vuoi andare incinta? La botta te la do io!”; il pubblico rise di nuovo. Ancora di più.

E io risi con loro.

E so benissimo, razionalmente e eticamente, che è giusto sapere l’esatta provenienza di quella mozzarella, per evitare alterazioni, frodi, rischi alimentari; e so benissimo, da padre di tre figli, quanto sia stato civile e giusto – e conveniente – per mia moglie godere di un sistema di welfare che le ha permesso di vivere serenamente le proprie gravidanze, eppure ho riso. E di gusto.

Perché questo è un po’ un virus sottile che circola dentro di noi. È latente. Come l’herpes zoster. Ce l’hai dentro, forse manco lo sai, non dà alcun fastidio, poi magari, a determinate condizioni, magari sotto stress, si risveglia e diventa fuoco di Sant’Antonio.

Il fascismo che c’è in noi

Ecco, i film di Zalone mettono in crisi questo nostro sistema. Vanno a interpellare, più o meno furbescamente, il fascismo che è in noi (nel film “Tolo tolo” un medico africano dice “il fascismo è come la candida”).

Lo scrive benissimo la compianta Michela Murgia nella postilla “A scanso di equivoci” al suo “Istruzioni per essere fascisti”, edito da Einaudi del 2018: “Le cose che ho scritto, non tutte e non sempre, in qualche momento della mia esistenza (…) le ho pensate, e credo che sia capitato a ciascuno di noi”.

Roberto Vannacci

Ecco, il libro del generale Roberto Vannacci, “Il mondo al contrario” (pubblicazione indipendente autoprodotta su Amazon) ha prodotto questo effetto qua, in me che l’ho letto.

Per un attimo, magari “superficiale, incazzato o ignorante”, come direbbe Murgia, mi è sembrato di entrare dentro quel suo gioco ipnotico. Per un attimo, come di fronte a Checco e alla mozzarella, mi è venuto da dargli ragione. Perché in fondo, si stava così bene un tempo, quando tutto era più semplice e non c’erano tante complicazioni (che poi stessero bene solo alcuni a dispetto di molti, è un altro discorso, e il libro di Vannacci – astutamente – sorvola).

Il “Mondo al contrario” a me è sembrata una lunghissima (365 pagine ringraziamenti inclusi) sceneggiatura di un film di Checco Zalone, che però si prende sul serio.

E uno può leggerlo e ridere dall’inizio alla fine, come sostiene Natalia Aspesi, attraverso un suo sapidissimo articolo sul giornale Repubblica, ma se non sei ben centrato, se non hai gli antidoti giusti, magari, per un attimo “superficiale, incazzato o ignorante” finisci anche di annuire. Senza capirne il perché.

I principi dell’autore

L’autore a pag. 109 chiarisce esattamente i suoi principi: “La mia società, quella in cui sono nato ed ho vissuto e per la quale ha combattuto mio nonno – classe 1898, che arruolandosi a 16 anni si è fatto la prima, la seconda guerra mondiale e la guerra di Spagna – tutto sommato mi piace. Sicuramente si può migliorare ma è meglio di molte altre. Mi piacciono le libertà individuali, lo stato di diritto, la libertà di espressione, l’idea di poter avere successo basandosi sulle proprie capacità, l’uguaglianza di fronte alla giustizia, il benessere che ci siamo conquistati ed il progresso a cui siamo stati capaci di giungere. Mi piace la mia cucina, i cantautori nazionali, l’odore del pane fresco al mattino e le campane che suonano la domenica. Le altre culture le rispetto, non le voglio cambiare, a volte le apprezzo e ne so valorizzare alcuni tratti piacevoli e positivi ma non le sostituirei alla mia. E non voglio che nessuno ci provi con la mia. La mia cultura, la considero un dono che i nostri avi ci hanno tramandato con cura e che dobbiamo custodire gelosamente”.

Qui a mio avviso c’è tutto. C’è il problema. C’è il virus. C’è un sentire che pervade il nostro Paese a vari livelli e a vari strati più o meno subdolamente.

L’autore si pone moderato, apparentemente equilibrato (“Le altre culture le rispetto, non le voglio cambiare, a volte le apprezzo”), è un uomo semplice, al quale piacciono “l’odore del pane fresco al mattino e le campane che suonano la domenica”, è un uomo che sembra rifarsi ad alcuni princìpi da res pubblica romana, una sorta di pragmatismo lineare, campestre, una pietas morbida che si richiama agli antichi “avi”. Insomma, una sorta di Cincinnato che quando non fa la guerra, torna al proprio orto e magari si interroga sulle cose del mondo.

E chi vuoi che se la prenda contro il pane buono e le campane che fanno din don? Vannacci scrive in sostanza, “rispetto tutti” (e non è vero), ma guai chi viene a minacciare i miei valori (e sappiamo bene che su un crocifisso a scuola o sul presepe natalizio non siamo disposti a scendere ad alcun compromesso).

Il ritorno al Buonsenso

Quello che il libro propone è un ritorno al “Buonsenso”, con la “B” autorevolmente maiuscola. Il libro si pone come baluardo “del Buonsenso, del sentire comune, della tanto odiata “normalità” che si oppone all’ormai estrema percezione soggettiva del giudizio e della realtà” (pag. 1).

Il succo del libro lo riassumerei così: “non è che adesso noi normali dobbiamo sentirci anormali”. Questo è il “mondo al contrario”.

E potremmo ridere, come di fronte ad una battuta di Checco, perché questi sono un po’ i discorsi da vecchi del bar, da signore di una certa età sul pullman, non possono essere i pensieri di un uomo, che comunque ha ricoperto ruoli di prestigio e responsabilità, che ha vissuto nel mondo e (a suo dire) parla fluentemente il francese, e che decide di scrivere un libro simile nel 2023. Eppure…

Di sicuro le pagine relative alla famiglia e al mondo “lgbtq+++” sono pagine così estreme, così al limite, che indubbiamente, a meno di non riconoscersi in valori radicalmente chiusi e intolleranti, risultano a chi legge come provocazioni risibili e forse anche espressioni da piccolo mondo antico (“più o meno al Pleistocene” ribatte Aspesi). Ovvero non più condivisibili, salvo appunto inquietanti eccezioni.

Il guaio è che il libro di Vannacci non è il libro scritto da un bifolco troglodita, ma è un libro scritto con una certa chiarezza (magari non da una penna sopraffina), che sa comunicare in maniera diretta ed efficace.

È un libro che propone dati, numeri, statistiche, grafici (da vagliare tutti, per carità, ma comunque ci sono, a garanzia di ragionevolezza e scientificità). È un libro che cita l’Alighieri, la piramide di Maslow, Calvino, Benedetto Croce. È un libro dove l’autore sente scorrere nelle proprie vene il sangue “di Enea, di Romolo, di Giulio Cesare, di Dante, di Fibonacci, di Giovanni dalle Bande Nere e di Lorenzo de Medici, di Leonardo da Vinci, di Michelangelo e di Galileo, di Paolo Ruffini, di Mazzini e di Garibaldi” (pag. 110).

Un libro di “risposte”

Ma soprattutto è un libro che muovendosi nella complessità (magari azzerandola, ma comunque riconoscendola) “dà delle risposte”, proprio come lo Zalone di cui sopra, e queste risposte da una parte risvegliano quel “Buonsenso” (che è un sentire piccolo borghese ben presente nella nostra società e ampiamente denunciato da Pasolini nei suoi scritti più accesi), ma soprattutto vanno a evidenziare le contraddizioni, le debolezze (che sono a volte più timidezze) e i limiti (anche a livello comunicativo) di certi valori “di sinistra” (e lo scrivo per comodità, perché solo di sinistra non sono).

Se Vannacci scrive: “Le ventimila nutrie ed i molti tassi, volpi, e istrici, i cui numeri non sono stati “contenuti” e hanno scavato le gallerie corresponsabili del cedimento degli argini durante l’ultima alluvione della Romagna non valgono, neanche lontanamente, una sola delle 15 vite umane che purtroppo sono andate perse durante la recente calamità” (pag. 337), sicuramente attira il consenso istintivo, istantaneo, superficiale e ignorante di chi legge.

Vai a spiegare che forse il problema delle recenti alluvioni e frane non è certo da attribuire al lavorio incessante di nutrie, tassi e istrici. E che il rapporto causa effetto che lui evidenza è tutto da dimostrare. Ma soprattutto, chi di noi, nella sua zona d’ombra, non pensa che la vita di un uomo valga di più di quella di un animale?

Un attacco al politically correct

Se Vannacci scrive: “Vi sono quartieri dove la giustizia e il vivere comune sono amministrati da altre entità rispetto a quelle statuali, dove bande di extracomunitari occupano interi stabili e li gestiscono secondo le regole della prevaricazione e della violenza, dove si vorrebbe applicare la Sharia (ammesso che non lo si faccia già) oppure le leggi tribali africane, dove i minorenni non vengono avviati alle scuole e all’istruzione obbligatoria, dove le donne devono essere coperte dietro lo shador e dove è loro vietato uscire di casa” (pag 106), in un unico calderone pone così tante questioni che vanno così intimamente a colpire la nostra identità, la nostra visione dell’infanzia e della donna, e le nostre paure, il nostro bisogno di ordine e linearità, che implicitamente, dentro di noi, lo Zalone virus si riattiva fulmineo.

Quando Vannacci attacca il politically correct, sì è vero, si riferisce principalmente all’utilizzo dello schwa (che tra l’altro sappiamo bene essere tasto dolente per tanti e tante di noi), ma soprattutto tira in ballo Roald Dahl: “Il suo Augustus Gloop era un bambino “enormemente grasso con grandi piaghe flaccide di grasso e la faccia simile ad una mostruosa palla”, mentre ora i bambini leggeranno “enorme con grandi piaghe e la faccia simile a una palla”. Facendo sparire l’aggettivo “grasso” amputiamo un’opera e, eventualmente, facciamo nascere il tabù del sovrappeso. L’obesità, che purtroppo sta diventando quasi normale in alcuni dei progrediti paesi occidentali, non è né bella né sana, non deve passare come una cosa scontata e, sicuramente, non va taciuta, nascosta, censurata, annichilita come se non esistesse” (pag. 264). E sappiamo bene che questo è un tema che vede sensibili moltissime intellettuali e moltissimi intellettuali progressisti e, diciamo, più inclusivi.

Come ha scritto recentemente Vanessa Roghi, questa nostra irritazione verso il politically correct da una parte rimanda “alla peggiore cultura di destra americana”, ma dall’altra è propria “di una certa parte sedicente progressista italiana che crede sia possibile, anzi giusto usare parole offensive in nome di un non ben chiaro primato della libertà dell’intellettuale”.

Vietato sottovalutare

Insomma, a me sembra che questo sia un libro da non sottovalutare, da non prendere sottogamba, da non limitare a colpi di meme o sfottò.

Perché è vero, quando il generale fieramente etero rivendica sangue di Cesare scorrere nelle proprie vene, indubbiamente cade nel comico involontario, conoscendo bene i trascorsi “della moglie di tutti i mariti e del marito di tutte le mogli”. Quando a epigrafe del capitolo relativo alla famiglia pone le belle parole della maestra Chiara a generale e consorte relativi alla figlia (“Si vede che ha una famiglia alle spalle!”), di sicuro ci propone un altro quadretto/presepio che mostra ingenuità, ma dall’altra, in una società che vede il libro “Cuore” come solido esempio di letteratura pedagogica, non può che destare ammirazione il generale, bravo padre, che va pure ai colloqui senza trascurare la famiglia.

Ma quando Vannacci parla di ambiente, energia, tasse, stranieri, legittima difesa, casa, reddito di cittadinanza e riporta, banalizzando, fuori contesto, dati, numeri, quello che viene fatto negli altri Paesi, tutte le magagne del nostro sistema, quanto alla fine ci rimetta la povera gente, è naturale che torniamo in zona Checco Zalone, HACCP e “magnatela sta mozzarella a mammeta!”.

Il generale Vannacci centra reali paure e tocca il nervo scoperto di una complessità, che per sua natura, è ancora fonte di contraddizioni non risolte.

Deriderlo, senza fornire risposte, è una strategia che non si mostra efficace. Non è l’ironia, il sorriso sotto i baffi, l’alzata di sopracciglio, che può tranquillizzare persone che si sentono minacciate nella loro identità, nei loro valori, nel loro futuro e nel loro portafoglio.

Pericoloso è il libro di Vannacci, pericoloso è il non dargli peso.

Il Buonsenso così esaltato è sì un misto di patriarcato, razzismo, sessismo, e fobie varie che è anche quello più facile da deridere e disinnescare (almeno si spera). Ma rappresenta, allo stesso tempo, anche un sentimento piccolo borghese, un vero e proprio neofascismo da “società dei consumi”, conformista, egoista, senza forza morale, sostanzialmente tiepido. E questo è decisamente più ambiguo, trasversale, latente, zaloniano. E forse su questo, ancora adesso, abbiamo molto da lavorare.

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