L’unico vincitore
Erdogan è stato rieletto ancora una volta presidente della Turchia. Al di là delle considerazioni sugli eventuali brogli elettorali, quali sono ora le prospettive per il suo popolo e per la comunità internazionale?
Erdogan è stato rieletto ancora una volta presidente della Turchia. Al di là delle considerazioni sugli eventuali brogli elettorali, quali sono ora le prospettive per il suo popolo e per la comunità internazionale?
«Non ho vinto io. L’unico vincitore è il nostro Paese. Ha vinto la nostra democrazia». Queste sono le parole che più si imprimono nella memoria, tra le molte professioni di umiltà che il presidente Recep Tayyip Erdoğan usa per festeggiare la sua rielezione. Terza e ultima, salvo introduca una di quelle modifiche alla Costituzione a cui ci ha abituati. Questa riconferma non sorprende chi segue le vicende della Turchia ma ci sono alcuni elementi che vale la pena sottolineare, per comprendere e prepararci alla nuova “èra del Sultano”.
Primo ministro dal 2003 e presidente dal 2014, Erdoğan ha progressivamente consolidato il suo potere a scapito delle istituzioni democratiche del Paese, erodendo l’indipendenza della magistratura e imponendo il pensiero unico ai media, senza preoccuparsi di arrestare giornalisti poco inclini all’obbedienza o membri dei partiti di opposizione troppo popolari. Al punto che, nel 2018, il think tank Freedom House aveva già modificato lo status della Turchia da “parzialmente libero” a “non libero”.
Numerosi osservatori imparziali sul campo hanno definito il processo elettorale “corretto” ma anche loro non sono riusciti ad aggiungere “libero”. Il clima è stato condizionato da una copertura mediatica poco neutrale per i diversi candidati, dalle presenze intimidatorie e talvolta aggressive ai seggi. Senza parlare delle enormi difficoltà logistiche che l’opposizione ha dovuto affrontare in campagna elettorale, anche solo per organizzare un comizio in luogo pubblico.
Resta comunque agli atti come una “vittoria della democrazia”, se il 90% degli aventi diritto si sono recati alle urne al primo turno e più dell’85% al ballottaggio. È una novità assoluta per la Turchia, dove Erdoğan ha sempre ottenuto percentuali pazzesche fin dal primo turno.
Sembra una vittoria arrivare al secondo turno, ottenuta grazie a una parte crescente di popolazione che non cede alle promesse nazionaliste e a un’opposizione finalmente unita in un’Alleanza che forse sopravvivrà alla sconfitta presidenziale per complicare l’eventuale, ulteriore stretta liberticida. Si sa, un autocrate che vince difficilmente torna sui suoi passi, di solito diventa un dittatore a tutto sesto.
In quest’ottica, a leggere i numeri, un piccolo dubbio andreottiano viene: 52,1% per Erdoğan e 47,9% per lo sfidante Kiliçdaroĝlu. Cifre molto simili raggiunte anche nei due turni elettorali possono confermare la forte polarizzazione della società civile oppure, a voler pensare male, sono conseguenza di una raggiunta “maturità” nel manipolare il risultato pur utilizzando i soliti, vecchi brogli.
Con gli occhi del mondo addosso, numeri realistici, che esprimano la forza della democrazia turca hanno un valore che trascende il ruolo del vincitore. Quando Erdoğan urla che “la gente (gli) ha dato ancora fiducia”, sta dicendo al mondo che la “sua” democrazia piace al popolo. Non è forse questo il senso di demos?
Appena noto il risultato, la lira turca ha toccato un nuovo minimo e già aveva perso in dodici mesi il 18,5% nei confronti dell’euro. I mercati, quei mattacchioni, temono nuove ingerenze nelle scelte della Banca Centrale, costretta a mantenere tassi ridicoli nonostante un’inflazione intorno al 50%. Determinanti per il futuro delle riserve valutarie, anch’esse ai minimi storici, saranno le nomine dei nuovi ministri del tesoro e delle finanze.
Le prime dichiarazioni circa la nuova politica di governo riguardano la ricostruzione delle zone colpite dai terribili terremoti dello scorso febbraio. Non sono bastati oltre 50mila morti e le evidenti negligenze pubbliche nella gestione degli aiuti (ma anche la corruzione e malversazione edilizia) a far votare contro il presidente. Due paroline sui milioni che ha impegnato, tutti da spendere sul territorio e la popolazione si è espressa a suo favore, contro i pronostici degli analisti.
In un impeto di generosità, Erdoğan intende costruire case anche oltre confine, nella speranza che i 3,7 milioni di siriani rifugiati nel Paese siano tentati di tornare nel loro Paese, in nuove e moderne abitazioni regalate dalla Turchia. La ricostruzione supporta la ripresa economica turca, risolve il problema dei troppi rifugiati che gli è quasi costato la rielezione e accresce la sua influenza nello scacchiere mediorientale. Si possono dire e pensare molte cose di Erdoğan, ma ha una visione chiara e coerente, anche a livello internazionale.
Negli anni, il presidente turco ha raggiunto e sfoggiato una posizione molto particolare: è amico di molti e nemico di (quasi) nessuno, in un esercizio di equilibrismo che sa sempre sfruttare al meglio le debolezze e i bisogni degli interlocutori. Mai sfiorato dal pensiero di sembrare un voltagabbana, si è invece imposto come mediatore nei conflitti e salvezza nelle crisi. Padre della patria e zio simpatico della pace nel mondo.
Al di là del “rapporto speciale” con Vladimir Putin, decantato in un’intervista alla CNN, Erdoğan ha rinsaldato anche le relazioni commerciali: acquista sistemi di difesa antiaerea da Mosca, non applica le sanzioni europee, intermedia in modo più o meno trasparente i commerci russi attraverso il Bosforo. Sul fronte politico, ha “risolto” l’impasse del grano, favorendo indirettamente il suo omologo egiziano Abdel Fattah el-Sisi, nemico di sempre e tra i primi ora a congratularsi per la vittoria.
E non si può dimenticare la NATO. La Turchia ne è membro irrinunciabile, con un peso specifico enorme sia in termini di collocazione geopolitica, sia per contributo all’esercito comune, in cui è seconda solo agli Stati Uniti e doppia agilmente il terzo classificato. Eppure, anche qui il presidente fa giochini pericolosi: consegna droni all’Ucraina mentre oppone un veto all’entrata di Finlandia e Svezia nell’Alleanza Atlantica, con la scusa dell’accoglienza offerta da questi Paesi ai rifugiati curdi senza chiedere se fossero profughi o terroristi.
Un banco di prova per il “nuovo” Erdoğan potrebbe quindi arrivare a luglio, al summit NATO di Vilnius, quando gli sarà chiesto di eliminare il veto contro l’ammissione della Svezia. Quello nei confronti della Finlandia era costato alle diplomazie occidentali concessioni di natura politica, economica ed è lecito chiedersi cosa chiederà stavolta.
In fondo, se è stato ricoperto d’oro per bloccare i siriani in fuga da un altro personaggio gentile, se gli è stato permesso di cambiare il nome ufficiale del paese nell’ottomano Türkiye, potrebbe chiedere una mano a ricostituire l’impero, chissà.
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