Aiutare in casa con i fratelli più piccoli non è lavoro minorile. Svolgere lavori domestici in favore del proprio nucleo domestico senza continuità non è lavoro minorile. Nemmeno aiutare saltuariamente le attività famigliari, dopo i sedici anni, non è lavoro minorile.

Copertina del rapporto di Save the Children

Il lavoro minorile ha delle caratteristiche ben precise che purtroppo, in un paese come l’Italia, vanno ancora ricordate.

A dieci anni di distanza dalla prima ricerca, Save the Children e Fondazione Di Vittorio hanno condotto una nuova indagine sul lavoro minorile in Italia con l’obiettivo di comprenderne le caratteristiche, l’evoluzione nel tempo e le connessioni con la dispersione scolastica.

Il lavoro minorile è infatti un fenomeno globale che non risparmia nemmeno il nostro paese, dove ancora manca una rilevazione sistemica di dati sul fenomeno, indice di come la nostra cultura del lavoro non aiuti a definire il fenomeno.

L’indagine porta il titolo Non è un gioco, ed è diventata anche un podcast a puntate in cui ne vengono spiegati i tratti principali.

Il lavoro minorile in Italia e il nuovo settore dell’online

In Italia la legge stabilisce la possibilità per gli adolescenti di iniziare a lavorare a 16 anni, avendo assolto l’obbligo scolastico. Per lavoro, si intende la partecipazione a qualsiasi tipo di attività produttiva o economica, anche quella di cura se svolta in modo continuativo.

Eppure nell’indagine viene stimato che in Italia 336 mila minorenni tra i 7 e i 15 anni abbiano avuto esperienze di lavoro, quasi 1 minore su 15.

Tra dicembre 2022 e febbraio 2023 sono stati compilati 2.080 questionari da ragazze e ragazzi di età compresa tra 14 e i 15 anni, in 15 province italiane e 72 scuole secondarie campione

Tra i ragazzi che dichiarano di svolgere o aver svolto un’attività, il 27,8% ha svolto lavori particolarmente dannosi per i percorsi educativi e per il benessere psicofisico, perché percepiti dagli stessi intervistati come pericolosi, o perché svolti in orari notturni o perché svolti durante il periodo scolastico.

I settori prevalentemente interessati dal fenomeno del lavoro minorile sono la ristorazione (25,9%), la vendita al dettaglio nei negozi e attività commerciali (16,2%), le attività in campagna (9,1%), in cantiere (7,8%), nelle attività di cura di fratelli, sorelle o parenti (7,3%).

Foto di Anastasia Shuraeva, unsplash.com

Emergono anche nuove forme di lavoro online (5,7%), come la realizzazione di contenuti per social o videogiochi, o ancora il reselling (rivendita) di calzature o abiti, smartphone e prodotti per sigarette elettroniche.

Pone infine un’enorme domanda etica la figura dilagante dei baby influencer, coinvolti dagli stessi genitori in attività non chiare di vendita commerciale, che va persino a delinearne l’identità, in un periodo in cui l’identità è ancora tutta da costruire.

Dispersione scolastica e cause

Dall’indagine emerge inoltre che tra i minori intervistati, quasi 1 su 3 lo fa durante i giorni di scuola. Tra questi il 4,9% salta le lezioni per lavorare.

La percentuale di minori bocciati durante la scuola secondaria è quasi doppia tra chi ha lavorato prima dei 16 anni rispetto a chi non ha mai lavorato.

Se a questo dato si accosta quello dell’alta percentuale di genitori tra gli adolescenti che hanno avuto esperienze di lavoro, senza alcun titolo di studio o con la licenza elementare, si coglie subito il rischio di trasmissione intergenerazionale della povertà e dell’esclusione.

Foto di Tiger Lily, unsplash.com

La crisi economica e l’aumento della povertà in Italia, rischiano di far crescere il numero di minori costretti a lavorare prima del tempo, spingendone molti verso forme di sfruttamento più intense.

Eppure, un dato che ha sorpreso i ricercatori, è quel 38% di ragazzi che si sono avviati precocemente al lavoro per il piacere di farlo, per il piacere di avere dei soldi propri e poterli spendere come vuole.

Il che pone delle domande molto importanti alla scuola per esempio, che non sembra soddisfare i bisogni di formazione dei ragazzi.

O alla cultura italiana in merito al lavoro, che probabilmente pone degli obiettivi di benessere economico e dei valori di riferimento non realistici, con gravi ripercussioni sia sul piano fisico che psicologico.

Ma Treviso che c’entra?

Parallelamente alla ricerca statistica, sono state raccolte interviste e storie in 4 città italiane: Napoli, Ragusa, Prato e Treviso.

A Treviso in particolare dietro un’apparente marginalità del fenomeno, l’approfondimento tramite focus group ha lasciato emergere una certa significatività di casi di minori impegnati in lavori agricoli o attività tessili presso aziende di stampo familiare, con particolare interessamento del periodo estivo.

La particolarità di questa zona sta nel fatto che gli interlocutori ascoltati riferiscono di un’entrata precoce nel mondo del lavoro non tanto per pressioni di natura economica, quanto per una cultura diffusa per cui l’inserimento precoce nel mondo del lavoro è un valore.

I ragazzi percepiscono una sorta di pressione degli adulti che si traduce anche nella sollecitazione che imprese e aziende proiettano sul mondo della scuola.

Nel trevigiano inoltre diversi minori di origine straniera, soprattutto in comunità provenienti dal Bangladesh, risultano attivi in piccole aziende di famiglia dove la loro competenza linguistica agevola i genitori nel rapporto con fornitori e clientela.

Frequenti sono i casi di ragazze impegnate in lavori di cura all’interno del nucleo familiare allargato.

È stato infine segnalato anche un importante flusso di minori stranieri non accompagnati dall’Albania spesso immessi in reti informali al loro arrivo, con conseguente rischio di vero e proprio sfruttamento lavorativo.

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