Recentemente Barbara Salazer in un articolo su Heraldo ha trattato con lucidità l’annosa questione del linguaggio a proposito della riedizione dei libri scritti da Roald Dahl, delineando come il processo di revisionismo dei testi per ragazzi sia in realtà un evento periodico, atto a intercettare i cambiamenti storici. Il linguaggio perciò, per sua stessa natura, assume via via la forma della società in cui viene utilizzato, evitando la stagnazione di locuzioni stereotipate, che fino a qualche tempo prima erano invece ben accette. Tutto giusto.

C’è però un rovescio della medaglia in campo cinematografico, che spesso passa in sordina ma si sta rivelando quanto mai decisivo per il modo in cui vedremo le immagini. Non sto parlando di chi grida alla “dittatura del politicamente corretto” perché La sirenetta – personaggio di finzione ricordiamolo – è rappresentata con un colore della pelle diverso (una sirenetta!) rispetto alla storia originale. Oppure di chi urla al nazismo (giuro) perché su Netflix Via col vento è presentato con un disclaimer che spiega il contesto storico della produzione. Queste polemiche, figlie dei social, possono trovare una risposta argomentata nelle parole del già citato articolo di Salazer.

Un processo di edulcorazione

Il rovescio della medaglia di cui parlo ha a che fare invece con un altro tipo di revisionismo storico, ovvero l’edulcorazione del passato mediante il cinema di oggi. Mi spiego meglio attraverso un esempio portato sulla propria pagina Facebook dal critico cinematografico Pier Maria Bocchi.

Ne Lo strangolatore di Boston, recente film distribuito su Disney +, a un certo punto c’è un dialogo esemplificativo. Il detective Conley parlando con la giornalista Loretta McLaughlin riguardo i casi di omicidio di donne che stanno seminando il panico dice: “I’ve got a thousand sex-offenders a day and now the commissioner just ordered a raid on every gay bar in the city.”
Nella scena successiva il direttore del Record American chiede: “How many gay bars in Boston are there anyway?”. Il film è ambientato nel 1963, cito Pier Maria Bocchi: “Notate qualcosa di stonato? Percepite qualcosa di profondamente sbagliato? Chi nel 1963 parlava in questi termini? Chi riferendosi agli ‘homosexual’ parlava di ‘gay’? Ripeto: nel 1963. In queste scene a pronunciare le battute sono due uomini appartenenti uno alle forze dell’ordine, l’altro alle stanze del potere della stampa. Davvero credete che due maschi bianchi e in queste posizioni sociali, quantunque evoluti e progressisti, potessero usare ‘gay’? Ma sapete cosa significava ‘gay’ all’epoca? Sapete quando ‘gay’ è diventato di uso comune e ha acquistato il senso che oggi attribuiamo ad esso?”.

Keira Knightley nei panni della giornalista Loretta McLaughlin

Il linguaggio del passato rivisto al presente

In effetti recentemente mi è capitato di rivedere il capolavoro di Robert Altman Il lungo addio (1973). Nel film durante un interrogatorio un poliziotto si riferisce al cognome del protagonista apostrofandolo come “da gay” ma utilizzando un linguaggio ben più offensivo. Gli esempi però potrebbero essere tanti, centinaia e sono figli della società dell’epoca, perché – come detto in apertura – il linguaggio è plasmato da noi, dalla nostra identità. Qual è il punto quindi?

La falsificazione del modo di parlare del passato mediante film di oggi ambientati in un periodo preciso rischia di cambiare radicalmente il nostro sguardo nei confronti della storia stessa. Perché c’è una netta differenza tra uno stereotipo e mostrare invece un contesto socio-culturale. Nel primo caso è doveroso intervenire, ma per quanto riguarda il secondo siamo sicuri che sia un bene? Ricordo le polemiche al seguito dell’uscita di Django Unchained e delle accuse di razzismo rivolte a Quentin Tarantino derivate dal ripetuto uso della “N-word” all’interno del film. Il regista di Pulp Fiction ha risposto chiedendosi come secondo loro un proprietario terriero e di schiavi del Mississippi nel 1858 avrebbe dovuto parlare.

Quentin Tarantino fin dal suo esordio ha dovuto scontrarsi contro polemiche di ogni tipo

Un cambiamento dello sguardo

Il problema dunque è alla base dell’estremizzazione di un movimento sociale – l’ideologia Woke – che dalla correttezza e contemporaneità degli intenti è in procinto di diventare soffocante per la nostra storia. Si rischia quindi di nascondersi dietro un dito per mascherare ciò che siamo stati con le immagini di oggi, con il cinema che al posto di diventare di denuncia sociale si fa bugiardo per paura di una stigmatizzazione.

Spesso mi capita di leggere di film odierni bollati come razzisti perché nella loro narrazione è presente un personaggio bigotto, negativo, ignorante. Oppure di pellicole massacrate dal fenomeno online del “Review bombing” a causa di una determinata rappresentazione del passato che non rispetta la società odierna.

Il cinema è fondamentale come mezzo di informazione e comunicazione sia nella sua natura di fiction sia in quella di non-fiction. La distorsione del reale attraverso questa imponente macchina industriale in conclusione può farci cadere in un facile moralismo, causando l’omologazione di una forma d’arte.

Dovremo, piuttosto, imparare ad arrabbiarci per ciò che siamo stati, mostrando i nostri orrori ed evitare di ripeterli.

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