Ora che si sono smorzati gli echi dell’indignazione contro le modifiche alle storie di Roald Dahl, proviamo ad affrontare l’argomento con la dovuta ludicità. È ovvio che sul momento si possa provare un moto di stizza, che si alimenta di quello provato da altri e l’onda emotiva ci trascina a usare parole che forse, se esaminate attentamente, si rivelano errate. O almeno esagerate.

Pensare è comunicare

Qualsiasi promanazione umana, che sia una telefonata a un amico o l’elenco della spesa, subisce un processo di selezione interna. Il modo di comunicare e le parole scelte cambiano nella nostra testa diverse volte prima di uscire allo scoperto: in relazione all’ambiente circostante ma anche per un affinamento interno. Comunichiamo nel modo che, di volta in volta, riteniamo più efficace per ottenere il risultato.

Visto che siamo esseri teoricamente dotati di umanità, un’altra zona del cervello ci invia un impulso meno utilitaristico, chiede di non ferire l’altro, di trovare il modo di veicolare il messaggio in modo efficace ma tentando di limitare la sofferenza di chi ci ascolta. Così, la nostra frase iniziale si arricchisce di locuzioni e forme di cortesia, trova un verbo migliore. Tutto nel microsecondo tra il pensiero e la parola.

L’espressione artistica

Le numerose forme di comunicazione artistica vivono un processo identico. Un’opera letteraria o un dipinto vogliono trasferire un messaggio, un’idea. Nella testa di un artista il procedimento di ricerca, selezione, eliminazione e sostituzione descritto sopra avviene molteplici volte, complice la minor urgenza comunicativa. Un autore scrive e riscrive, un musicista prova diversi ritmi e tonalità, un poeta sperimenta con le metriche e un pittore coi colori.

L’arte subisce però anche un secondo processo, completamente esterno. Capita a quello stesso poeta che voglia veder pubblicate le sue creazioni, oppure al cantautore con un nuovo testo. L’arte si confronta con figure professionali che tagliano, aggiustano, suggeriscono e tagliano di più. Chiunque abbia prodotto arte lo sa bene: un’opera si deve inserire in un contesto di riferimento, deve rispettare le norme redazionali e sociali, vuole essere accogliente e non respingente.

Il blocco dell’editor

L’editoria ha formalizzato questo metodo istituendo la figura dell’editor, un professionista che aiuta a far brillare il diamante appena estratto dalla nostra testa. Segnala incongruenze, suggerisce modifiche o chiede approfondimenti; elimina quella parte a cui tenevamo tantissimo perché non ha attinenza o utilità per la storia e noi ci arrabbiamo ma in cuor nostro gli diamo ragione.

Lucio Dalla a Sanremo nel 1971.

Il prodotto finito è necessariamente diverso da quello iniziale, per l’apporto di numerose teste oltre a quella dell’autore. È normale, accade a tutti, da sempre e in modi sempre più raffinati con l’evolversi della richiesta culturale.

Qualche giorno fa, in occasione del compleanno di Lucio Dalla, ho scoperto che la canzone “4/3/1943” è stata profondamente modificata per poter partecipare a Sanremo. Era il 1971 e certi temi non erano ancora sdoganati.

L’autrice Paola Pallottino si lamentava a “Splendida cornice” (un programma adorabile di Geppi Cucciari su RaiTre, il giovedì sera) che il titolo originale Gesubambino fu giudicato improponibile, che dovette lottare perché restasse almeno nel testo. Fu costretta però ad accettare che il verso fosse cambiato da “per la gente del porto io sono Gesubambino” in “mi chiama”. Impensabile che un figlio di tanta madre – anche su questo, djverse parole sostituite – potesse “essere” una divinità.

Non parliamo di censura

Anche se in molti casi i nostri stessi bias cognitivi rendono difficile distinguere, ci sono alcuni elementi d’aiuto. Prima di tutto chi revisiona: se è un politico, o qualcuno non immune a influenze ideologiche o religiose, lascia propendere per censura. Ma è anche vero che Avvenire è uno dei giornali meno censurati d’Italia.

Altra differenza sostanziale è lo scopo per cui viene richiesta la modifica di un’opera letteraria. Se serve a migliorare la leggibilità di un testo, se lo rende più potente, sembra proprio editing di quello fatto bene. Se invece elimina opinioni, se cancella o rende irriconoscibile l’identità dell’autore, allora ci sono pochi dubbi che si tratti proprio di censura.

La letteratura per bambini e ragazzi

Ci avviciniamo a Roald Dahl, tranquilli. Chi scrive per una categoria protetta ha una responsabilità enorme. Oltre a scegliere con cura le parole e a sottoporle al processo editoriale, deve fare i conti con il ruolo pedagogico. Fin dalla scelta se narrare una favola con la morale preconfezionata, oppure una fiaba o una storia che non ti spiega cosa sia giusto o sbagliato.

Le favole sono uno strumento importante per la crescita psicologica del bambino. Contengono tutti i loro mostri interni e li rendono “visibili”, ma anche le risorse per affrontarli una volta riconosciuti. Un bimbo non può concepire la sua mamma cattiva e allora ecco la matrigna, o la strega. Figure materne crudeli a incarnare quelle volte che mamma lo sgrida. La fiaba instaura un dialogo tra chi legge e chi ascolta, così come un dialogo interno al bimbo stesso tra le sue paure e le sue risorse. Una fiaba non deve avere un finale piacevole, deve però dare gli elementi per comprendere il finale, per immaginarne uno alternativo.

Con un ruolo così importante, è addirittura obbligatorio che il testo subisca un’analisi ancora più attenta. Da diversi anni sono operativi nelle case editrici i cosiddetti sensitivity readers, tipicamente psicologi o sociolinguisti che esaminano il testo proprio in ottica educativa e formativa, segnalando concetti o parole che potrebbero essere offensivi o discriminatori.

Linguaggio ampio

Il “caso Dahl”, che tanto ha infiammato gli animi e fatto gridare allo scandalo, si inserisce in un processo di revisione dei testi per ragazzi, una procedura standard fin da Gutenberg e che si ripete periodicamente per garantire che il testo rispecchi al meglio i valori della società civile.

Quando ci si rende conto che una parola può ferire, non trova più “agganci” con la realtà o diviene offensiva, allora si trova un termine ampio che non snaturi il messaggio della fiaba.

Per chi si è preoccupato per la distruzione di capolavori della letteratura, riportiamo un aneddoto intrigante su La fabbrica di cioccolato, di cui gli indignati di oggi avranno visto solo il film. Nella versione originale, del 1963, gli Umpa Lumpa, erano descritti come pigmei neri provenienti dall’Africa che lavorano cantando, in cambio di cacao e alloggio.

Nessun problema in quella fase storica, ma nella revisione post movimento afroamericano di inizio anni Settanta, sono sparite tutte le attinenze con la deportazione degli schiavi per le coltivazioni di cotone. Non ne sentiremo certo la mancanza. Quella che sembra censura a volte è soltanto il tentativo di rimediare a sviste, di correggere luoghi comuni divenuti dolorosi.

L’immaginazione non segue altro che le sue regole

Gli Umpa Lumpa nel film Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato del 1971, tratto dal libro di Roald Dahl La fabbrica di cioccolato

Non sembrano poi tanto gravi le modifiche apportate ai libri di Dahl all’alba del 2023. Siamo andati a verificare. Poche, circostanziate e condivise con la fondazione degli eredi. Ma soprattutto non alterano il messaggio. Togliere grassone e lasciare enorme sicuramente non ha una connotazione politica o ideologica. Permette al bambino di “vedere” il personaggio con gli occhi della propria fantasia.

Senza trasferire a chi legge il messaggio di una uguaglianza orco = grassone quindi grassone = mostro. Un bimbo sovrappeso potrà immaginare il mostro come alto e muscoloso oppure come un grassone. Ma sarà un esercizio della sua immaginazione, non imposto dall’esterno.

Esautorare l’immaginazione

A fornire un prodotto finito ci pensano le trasposizioni dei libri in film, di animazione o meno. Ma questo è un altro tema, meglio lasciare a un’altra occasione l’analisi dei danni psicologici legati all’annichilimento del processo di elaborazione e immaginazione interno al bambino, grazie alla forza delle immagini preconfezionate.

Gente che fa un sacco di soldi creando stereotipi, per poi pentirsi e fingere ammende, rinforzando di fatto lo stesso stereotipo. Oppure quello opposto. Lasciamo stare, è terreno davvero minato.

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