Marco Polo, il suo viaggio, l’opera Il Milione, la detenzione: ingredienti che questa sera debuttano nell’ultimo lavoro teatrale diretto e scritto da Alberto Rizzi, insieme a Marco Gnaccolini. La cella di seta, per la prima volta in città al Teatro Camploy, nell’ambito della rassegna PSV del Comune di Verona, è un viaggio nella vicenda dello straordinario viaggiatore, mercante e ambasciatore veneziano. Sul palco, Francesco Gerardi, con le musiche composte ed eseguite dal vivo da Giorgio Gobbo, grazie alla co-produzione di Ippogrifo Produzioni e Teatro Boxer.

L’innesco del racconto è l’incontro, avvenuto nel 1298, tra Rustichello da Pisa e Marco Polo all’interno del carcere di Genova. I due daranno vita quindi a uno dei racconti più straordinari della letteratura occidentale: i ricordi del veneziano troveranno una forma narrativa grazie alla scrittura di Rustichello, già autore di due romanzi cavallereschi. Il resoconto dei viaggi in Asia, che Marco intraprese con il padre Niccolò e lo zio paterno Matteo, comprende il periodo tra il 1271 e il 1295 e la permanenza alla corte di Kublai Khan, al cui servizio Marco rimase per quasi 17 anni.

Una lingua misteriosa

Il suo arrivo in una delle carceri genovesi è molto probabilmente da attribuire a qualche conflitto tra le due repubbliche marinare – si pensa alla battaglia di Curzola proprio del 1298 -, mentre Rustichello molto probabilmente vi si trovava recluso già da 14 anni. La cella di seta porta per mano lo spettatore verso luoghi misteriosi e popoli sconosciuti, grazie a una lingua mai sentita che concorre a mettere in moto l’immaginazione e varcare i confini fisici e del tempo.

La locandina de La cella di seta, spettacolo scritto da Alberto Rizzi e Marco Gnaccolini, che debutta questa sera al Teatro Camploy.

Una forma di evasione che accumuna i protagonisti con il pubblico: «Ci siamo inventati una lingua che non esiste», racconta Alberto Rizzi, che ha condotto una mirata ricerca linguistica per questo testo. «Un po’ come ha fatto Rustichello per Il Milione. Avendo una storia che racconta di storie, ci pareva bello farlo in modo poetico. Perché oltre alle cronache siamo di fronte a una narrazione straordinaria, un libro delle meraviglie e non semplicemente un resoconto di viaggio. Il testo ebbe così tanto successo, che spinse un patrizio veneziano a pagare il riscatto per entrambi».

Dal passato le domande su cosa sia la libertà

La vicenda propria del medioevo italiano diventa però anche occasione per riflettere sul tema della prigionia e della libertà: vicino a noi il ricordo del lockdown e dello stato di reclusione collettivo, ma anche condizioni in cui sono ristretti artisti e artiste, ricercatori e ricercatrici, oppositori e oppositrici ai regimi, giornalisti e giornaliste che lottano per la libertà di parola.

Ma anche ogni incarcerato, che in quanto tale ci pone di fronte alla domanda su cosa sia oggi una prigione, cosa sia la libertà. Domande che gli autori si pongono di fronte al testo e a un mestiere fatto di storie da raccontare, capaci di diventare evasione, di costruire legami con il passato, salvandolo dall’oblio. 

A teatro, tutti intorno al fuoco del racconto

Il regista Alberto Rizzi, al debutto con “La cella di carta” al Teatro Camploy.

Per il regista teatrale e cinematografico, che nel 2021 vinse il premio per la miglior regia al Festival del cinema italiano per Si muore solo da vivi, il teatro offre una maggiore libertà stilistica, che consente molta più sperimentazione. «Il cinema nel suo apparato editoriale produttivo segue delle logiche di mercato. Oggi lo spettatore va trattenuto, specie se fruisce di un film su piattaforma e decide rapidamente con il telecomando, quindi ci sono delle dinamiche tecniche che cambiano molto la scrittura. A teatro invece il pubblico è molto generoso, sta lì due ore, ti concede il suo tempo. È come se ci si sedesse tutti attorno a un fuoco, come nell’antichità, e la storia è in mezzo, dentro al fuoco».

La struttura della scrittura e di alcune tecniche narrative che troviamo ne La cella di seta hanno un’impostazione cinematografica, «come quella dell’oggetto magico che nel nostro caso è un topo – continua Rizzi -. E poi c’è la capacità evocativa che ha il teatro, perché è un’opera che non potresti fare al cinema. Questo mi piace sempre tantissimo».

La forza dell’evocazione

«Spesso mi propongono sceneggiature di cinema dicendomi “tu che sei un regista di teatro apprezzerai molto questo film perché è tutto ambientato in uno stesso posto” – prosegue Rizzi -. E invece a me non piacciono quelle storie, il cinema deve fare il cinema e il teatro deve fare il teatro. Il bello de La cella di seta è che si basa sull’evocazione: c’è un momento in cui il protagonista sale su una sedia, sventola una bandiera e simula il fatto di essere sulla caravella di Cristoforo Colombo. Se fossi al cinema non potresti farlo. Dovresti avere la caravella, il mare e tutto il resto. invece il teatro, con pochissimi mezzi, riesce ad accendere la fantasia dello spettatore in maniera potentissima. E così capita per la lingua: subito non la capisci ma poi improvvisamente ne comprendi il grammelot, senza bisogno di sottotitoli».

Appuntamento stasera al Camploy alle 20.45, informazioni e prenotazioni biglietteriaippogrifo@gmail.com, telefono 3496625771.

(Articolo scritto in collaborazione con Ernesto Kieffer).

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