C’è un veronese che non si scorderà cosa sia stato il 2022 per la sua vita e per il senso del proprio lavoro. Il regista teatrale Matteo Spiazzi in questi giorni si trova in Etiopia, ma il 24 febbraio scorso era in Ucraina per le prove generali di uno spettacolo pronto al debutto. Il rientro in Italia insieme alla coreografa Katia Tubini è stato rocambolesco, ne hanno parlato anche i media nazionali.

Da quel giorno, più di dieci mesi fa, sono successe molte cose. Sotto traccia, Spiazzi ha preso una posizione non facile: quella di un uomo che ha messo in gioco la forza della cultura, capace di tessere reti di salvataggio. Per questo motivo, la redazione di Heraldo ha scelto di nominarlo Veronese dell’anno: un’attribuzione simbolica, ma che vuole mettere a fuoco il valore delle scelte, dell’azione del singolo anche davanti ad eventi catastrofici, grazie al coraggio e alla fiducia nel valore dell’arte come azione profondamente umana, nel senso migliore.

Stage for Ukraine, un ponte aperto

Oltre la metafora, con Stage for Ukraine (premio Pantheon 2022, insieme al Centro servizi volontariato, nda) è stata data l’opportunità agli allievi dell’Accademia di arte drammatica di Kyiv di proseguire gli studi in Italia. Un progetto niente affatto semplice da realizzare, sebbene siano stati diversi gli enti, più o meno formali, che si sono attivati per ospitare i ragazzi e per dargli poi la possibilità di continuare a studiare teatro. Oggi alcuni allievi si sono inseriti in corsi accademici a Genova, Roma, Bologna, Venezia. E a Verona li si è visti sia alla Fucina culturale Machiavelli sia al Modus con lo spettacolo Trojane e una risposta di pubblico incredibile. « Molti ragazzi sono tornati a casa, altri vedono una speranza di vita serena qui in Italia, ma hanno grande smarrimento davanti al futuro – afferma il regista -. Il dialogo che possono avere con noi è enorme, preziosissimo: l’ho visto anche andando nelle scuole, parlando con gli studenti della guerra e della sua complessità enorme. Io stesso ho amici su tutti i fronti, la tragedia è comune. Personalmente mi sento molto spaesato, per questo ascoltare le testimonianze è importante».

Foto di Alberto Camanni

DebuttaThe Ball tra le bombe di Kyiv

Lo spettacolo che avrebbe dovuto debuttare a fine febbraio da inizio dicembre è in cartellone al Kyiv Operetta. The ball, spettacolo di teatro danza creato con Katia Tubini, racconta la storia dell’Italia nel periodo compreso tra la Belle Époque fino agli anni Ottanta. Una serie di episodi, che accadono in una sala da ballo, che diventa balera e poi discoteca, creano un legame con il pubblico ucraino, specie nelle scene ambientate durante la prima e la guerra mondiale. Una madre tramite una lettera viene a sapere della morte del figlio («l’attrice alla prima si è molto commossa e la sua emozione ha vibrato nel pubblico»), oppure durante una coreografia di Tubini si racconta la violenza che una donna subisce. Una ciclicità della storia che parla di attualità, tanto che lo spettacolo è in replica tutte le sere e sempre esaurito.

«Chi andrebbe a teatro in Italia sotto i bombardamenti? La sera della prima mancava l’acqua, ci sono state interruzioni di elettricità ma tutti hanno proseguito. Se si blocca la corrente in alcuni teatri si recita al lume delle candele. Non si rinuncia all’importanza sociale del teatro» afferma Spiazzi al telefono, ora impegnato in un progetto in Etiopia fino a fine gennaio.

Il legame tra realtà e teatro è molto stretto in Ucraina, «è parte della vita sociale, anche se molti artisti sono usciti da Kiev, altri sono al fronte. Poco prima del debutto di The Ball, è stato fatto il funerale di uno dei danzatori perché si trovava in battaglia».

La commedia dell’arte, lasciapassare contemporaneo

La commedia dell’arte ha portato Spiazzi a viaggiare in Paesi dell’Est Europa: è destino, quello della maschera, di riuscire a costruire dialoghi, aprire domande anche là dove non si padroneggia la lingua. Le radici di Goldoni viaggiano ancora per il mondo e, nell’incontro, giungono alla loro forza comunicativa essenziale. «È una chiave con cui porto il mio essere italiano, veronese, nel mondo. E poi scambio conoscenze, ci si arricchisce reciprocamente», prosegue il regista, che mosse i primi passi verso Est partendo dalla Slovenia, per poi giungere in Bielorussia sperimentando altri generi teatrali, dalla maschera intera, gli spettacoli senza parola, il teatro danza. «Strumenti con cui porto avanti anche una pedagogia. Il sistema teatrale in Est Europa funziona in modo diverso: a Kyiv sono arrivato ad esempio perché il direttore del teatro ha visto il mio spettacolo realizzato con la compagnia bielorussa in un festival internazionale a Monaco. Capita anche che siano gli stessi ex allievi a invitarti per un workshop nei loro Paesi, così sono nate collaborazioni e regie».

Matteo Spiazzi

All’attivo ci sono ora tre spettacoli in Ucraina, tre in Bielorussia. L’approdo in Etiopia parte proprio da uno spettacolo realizzato in Ucraina. «Non impongo la cultura italiana, ma creo un dialogo tra il mio approccio e la cultura del Paese che mi ospita. Ora in Etiopia stiamo lavorando su tematiche locali. Avrei dovuto arrivare qui a marzo, ma gli eventi della guerra e legati al progetto Stage for Ukraine hanno cambiato i piani. Mi trovo in un mondo totalmente diverso e per me nuovo, dopo il primo workshop selezionerò gli attori per uno spettacolo da costruire, in collaborazione con il Teatro nazionale di Addis Abeba».

L’esempio di Brecht per dire la guerra

Fare il racconto della guerra mentre essa si compie è un lavoro che per Spiazzi rende ancora più vicino il teatro di Brecht. «In Bielorussia, dove ho cari amici, ho assistito a rappresentazioni casalinghe, mettevano in scena testi non rappresentabili di Heiner Müller. Un teatro clandestino e illegale, che assume per me un valore catartico. Questo “dialogo tra uomini”, reale, è l’unica forma d’arte che si basa sullo scambio tra attore e pubblico e avviene solo in quel preciso momento. Lo si comprende anche in Trojane, che parte da Euripide, ma poi racconta di ragazzi che in estate si chiedono perché non tornino in patria, o non facciano il militare. Il padre di un ragazzo del Donesk si sente ucraino, ma è costretto a combattere dalla parte dei russi. Non può rifiutarsi, ha lì il resto della famiglia. Era stato fermato per strada, ha dovuto firmare l’arruolamento altrimenti lo avrebbero giustiziato. La sua domanda è stata se avrebbe dovuto lottare con gli ucraini e poi rischiare di uccidere un giorno suo padre».

La domanda ultima, priva di risposta, è «a cosa serve l’arte quando i bambini muoiono. Dal punto di vista artistico ci sono elementi per mettere in scena qualcosa di necessario. Ma dal punto di vista umano è terribile: per ragioni personali avevo scelto, prima della guerra, di andare per Natale in Ucraina, là ho tanti amici, e si dovevano fare le prove per lo spettacolo. Ma ora i miei amici sono al fronte, in trincea. Riesco a sentirli ogni tanto per capire se stanno bene, altri allievi, che sono rientrati, si rifugiano in metropolitana per i bombardamenti. Sinceramente, dopo questi mesi, devo ancora realizzare cosa è successo. Razionalizzo, ma è solo per non farmi travolgere dagli eventi».

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