Ci eravamo occupati delle sorti del governo peruviano a luglio dell’anno scorso, quando Pedro Castillo, ex insegnante della provincia andina, aveva vinto le elezioni presidenziali con uno scarto di soli 40 mila voti. La sua rivale era Keiko Fujimori, figlia del dittatore Fujimori, che per l’ennesima volta aveva tentato la scalata al Congresso.

Castillo ha vinto perché non era un politico e perché la gente della provincia peruviana, stanca di anni di soprusi e violenze e della corruzione della classe dirigente, aveva visto in lui la grande svolta.

Purtroppo in questo anno e mezzo l’inesperienza di Castillo si è vista tutta: in un Paese che è uscito stremato dal Covid, con gli ultimi cinque presidenti finiti tutti in carcere per corruzione (di cui uno suicida), Castillo si è lasciato manipolare dagli “esperti” della politica, grazie a un giro di corruzione da cui anche lui si è lasciato avvinghiare.

La nuova presidente del Perù, Dina Boluarte. Foto ufficiale

In un anno e mezzo ha cambiato venti ministri e due premier, ha tessuto accordi con imprenditori e leader politici per spartirsi gli appalti pubblici in campo energetico e delle infrastrutture, ha distribuito incarichi in modo personalistico promuovendo gli alti gradi della polizia, rimanendo coinvolto in almeno dieci inchieste.

È resistito a vari tentativi di golpe fino a che, il 7 dicembre, lui stesso ha tentato in modo estremo di accentrare nelle sue mani tutti i poteri, sciogliendo il Congresso e annunciando nuove elezioni.

Questo suo tentativo di colpo di stato è durato poche ore: Castillo è stato arrestato e in men che non si dica la sua vice, Dina Boluarte, è stata eletta nuova presidentessa del Perù.

I fantasmi del terrorismo si sono risvegliati

Sembrava concludersi così questa triste vicenda: con la solita delusione dei cittadini peruviani e l’ennesimo presidente in prigione.

Manifestazione a Cusco. Foto di Augusto Castillo Valverde, fornita da P.H.E.

Ed invece questo tentativo di golpe e la riposta pronta del Congresso che ha ristabilito l’ordine ridando alla vecchia casta politica i poteri che Castillo aveva osato toccare, ha turbato molto il popolo della provincia.

Qui bisogna ricordare che sono passati solo 40 anni dagli anni del terrorismo. Anni in cui la dittatura di Fujimori ha represso con estrema violenza ogni tentativo di ribellione.

Anni in cui Sendero Luminoso da alternativa politica si è trasformato in gruppo terroristico in collusione con i trafficanti di droga.

Chi ci è andata di mezzo è stata la popolazione rurale, che ha subito violenze aberranti e soprusi condannati, tardivamente, a livello internazionale.

Si è anche rotta quella fiducia collettiva che regge una popolazione e ancora oggi, in Perù, la diffidenza tra gli abitanti della provincia e quelli di Lima, si tocca con mano, alimenta pregiudizi razziali e ingiustizie sociali quotidiane.

Le proteste: in cammino dalle Ande verso la Capitale

La sorpresa è stata lo scoppio delle proteste in quelle provincie che, nella memoria storica, sono quelle che più duramente sono state colpite dal terrorismo: Ayacucho, Huancavelica, Arequipa, Andahuaylas e Cusco.

A partire dal 13 dicembre, migliaia di campesinos sono scesi in piazza, con campanacci e cori, hanno sfilato per protestare contro la ripetuta violazione della democrazia e il palese disinteresse della classe politica verso la volontà del popolo, che si esprime con il voto.

La reazione del governo è stata violentissima: in pochi giorni i militari hanno ucciso sette manifestanti, tra cui anche un minore, e ferito più di 50 persone.

Manifesto contro la disinformazione della stampa ufficiale

I peruviani sono rimasti scioccati da questa repressione così violenta e la società civile si è di nuovo spaccata: da una parte gli abitanti della provincia che continuano a protestare e sono scesi verso la capitale, dall’altra gli abitanti di Lima che guardano a queste manifestazioni con apprensione, anche fuorviati da una stampa manipolata dal governo, che fonda le proprie notizie proprio giocando con quei pregiudizi mai sopiti, tra limegni e andini.

Le proteste tuttavia non si sono fermate. La polizia ed i militari hanno aumentato la repressione violenta.

Lima è stata presa d’assalto da migliaia di manifestanti; e la presidentessa Boluarte, in piena escalation punitiva, giovedì 15 dicembre ha emanato lo stato di emergenza e il coprifuoco in tutto il paese, per trenta giorni.

Però ora ci sono i social

La società è spaccata. I media ufficiali non fanno altro che definire i manifestanti come vandali e terroristi. Ma c’è una novità.

Video fornito da P.H.E: polizia armata e gente comune che tenta di frenare la violenza. “Perché sparate? Siete fratelli, figli, cosa siete?” grida la donna in sottofondo

Gli andini, che non parlano uno spagnolo fluente perché molto spesso utilizzano il quechua e perché non godono di una scolarizzazione efficace, hanno scoperto il potere dei video girati con lo smartphone e poi condivisi sui social. Se prima non c’era modo di smentire i report ufficiali, ora i video su TikTok delle violenze che subiscono i manifestanti, sono visibili a chiunque abbia una connessione internet. Tanto che persino l’ONU ha espresso preoccupazione per la violazione dei diritti umani.

Venerdì 16 dicembre, il Coordinamento Nazionale per i Diritti Umani in Perù, ha denunciato pubblicamente che ci sono 10 morti (fonti non ufficiali ne contano almeno il doppio), 89 persone ferite, 147 imprigionate arbitrariamente che gli avvocati del Coordinamento non riescono a raggiungere perché viene loro impedito dalle forze dell’ordine.

La Presidenza della Conferenza episcopale peruviana ha chiesto che cessi immediatamente la violenza. Ma intanto nel Paese, si è riaperta la ferita della spaccatura civile, che chissà quando riuscirà mai a cicatrizzare.

Per la stesura di questo articolo si ringrazia la dottoressa P.H.E. per la dettagliata descrizione dei fatti e il materiale inviato da Lima. La dottoressa ha voluto mantenere riserbo sulla sua identità, per timore di ripercussioni.

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