La ripresa delle sale dopo la pandemia è stata lunga e difficile, e la strada è ancora in salita. Le associazioni di categoria del cinema italiano hanno lanciato la campagna “Solo al cinema”, per rimarcare quanto l’esperienza in sala sia ben diversa da quella in salotto. A ritmo di hashtag e spot stracolmi di star del cinema italiano, la campagna ha tentato di remare contro la corrente di un cambiamento epocale che il Covid ha accelerato: sempre più spesso capita che determinati prodotti, che un tempo sarebbero comunque usciti in sala, vengano invece destinati alle piattaforme streaming, mentre le sale stanno diventando o il territorio del cinema d’essai, oppure degli eventi giganteschi, Marvel e affini.

In questo panorama arriva come un asteroide in rotta di collisione con la Terra Avatar: La via dell’acqua, un film con cui James Cameron sembra voler confermare senza ombra di dubbio che, sì, non c’è niente come vedere un film al cinema. Il discorso, anche in questo caso, è un po’ più complesso di così, perché i film-evento ancora funzionano e l’eventuale successo di Avatar non sarà la prova di un ritorno in massa del pubblico al cinema, ma solo di un ritorno in massa del pubblico a vedere un IP famoso, noto per essere uno spettacolo da godersi su uno schermo enorme, e che certamente non arriverà su una piattaforma prima di almeno tre o quattro mesi. Resta, però, che se la retorica di “Solo al cinema” non vi aveva convinto, Avatar: La via dell’acqua lo farà.

Kate Winslet e Cliff Curtis nel film.

Sgombriamo subito il campo dai dubbi: la sceneggiatura di questo sequel non è né meglio né peggio di quella del primo capitolo. La storia, quella sì, è un po’ più interessante e aderisce meno pedissequamente al modello del Viaggio dell’Eroe di Campbell e Vogler, ma l’esecuzione, i puri dialoghi, il modo in cui i personaggi sono scritti seguendo cliché prestabiliti e le svolte di sceneggiatura non fanno gridare al miracolo. Non c’è, insomma, quella progressione devastante fra Terminator e Terminator 2, quella voglia di spiazzare ribaltando i punti di vista per passare alla storia. Cameron fa esattamente quello che aveva fatto con il primo Avatar: scrive un film semplice, diretto, a volte pacchiano/naif nel modo in cui ritrae questi “buoni selvaggi” che sembrano usciti da una fantasia post-coloniale infusa di New Age da Autogrill. Ma lo fa consciamente, perché sa che, quando c’è da recuperare i fantastiliardi di paperdollari spesi per sperimentare nuove tecnologie, il modo migliore per farlo è realizzare un’opera universale, che possa essere compresa da tutte le culture e non offenda nessuno. Perché Avatar: La via dell’acqua deve battere cassa.

«I Sully restano uniti.»

Allo stesso tempo, Cameron si assicura che la visione valga ogni centesimo speso per il biglietto. Avatar: La via dell’acqua è BELLISSIMO, bellissimo da vedere, s’intende. È il primo film moltiplicato per mille, cosa che era anche prevedibile, perché Cameron e la Weta (la compagnia di effetti visivi fondata da Peter Jackson) hanno avuto tutto il tempo e le risorse necessarie per affinare quanto costruito per il primo episodio. Stavolta, Cameron si concede anche di lasciarsi andare a una delle sue ossessioni, l’acqua e le riprese subacquee. Utilizzando la nuova e migliorata tecnologia del performance capture, realizza scene di rara bellezza, con i Na’vi che danzano e giocano con le creature marine di Pandora, in un atto centrale in cui è abbastanza evidente quanto poco gli freghi della progressione della trama, e quanto si sia invece fomentato alla prospettiva di poter girare quelle scene in quel modo. Il tutto è avvolto da un 3D perfetto, mai così immersivo, che lavora sulla profondità e punta all’invisibilità: dopo un po’ vi dimenticherete che c’è, non perché sia inutile, ma perché è realizzato in maniera così armoniosa da non essere più percepito dal cervello come un trucchetto extra. È parte di un tutto, un portale dimensionale verso una realtà parallela e aliena.

Trinity Jo-Li Bliss è Tuk, la figlia minore di Jake e Neytiri.

Per il resto, Cameron punta su un racconto più intimo e corale, meno evento e più parte di un affresco, che proseguirà, se tutto andrà come deve andare, nei successivi tre capitoli, previsti a cadenza biennale da qui al 2028. Al centro, anziché una storia d’amore, c’è la storia di una famiglia, che diventa il nuovo ideale da difendere al posto della purezza di Pandora. «This time, it’s personal», direbbe la vostra generica tagline hollywoodiana. Eppure, proprio perché si concentra più sul comparto visivo che su quello narrativo, Avatar: La via dell’acqua non smuove i sentimenti come vorrebbe, e resta un grande spettacolo un po’ fine a se stesso quando avrebbe potuto puntare al capolavoro. Anche per questo, le tre ore e dieci di durata si fanno sentire: non c’è un appiglio o una posta in gioco abbastanza alta da catturarci fino in fondo e, quando la magia dell’effetto novità svanisce, la stanchezza si fa sentire. Ma, ragazzi, che viaggio.

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