È successo ancora: un fatto grave, di notte quasi come quella volta di quattordici anni fa (quando a rimetterci la vita fu il povero Nicolò Tommasoli, ndr), tra chi prendeva una boccata di una sigaretta nell’ultimo servizio del turno di lavoro e chi bighellonava per la città, in branco, perché nel branco trova identità e coraggio e pratica la violenza gratuitamente, senza pensare alle conseguenze.

Una banalità e poi il pestaggio, senza senso: non per rivendicazione, non per abuso della forza. Si suppone per la rimozione del freno inibitore che l’agire in gruppo manifesta. Ma chissà.

Abbiamo visto le avvisaglie sui social ed è destino che la polemica politica si impossessi di un grave episodio, non certo isolato, per chiedere  misure di sicurezza draconiane: più per dimostrare che l’opposizione, dopo settimane di torpore,  vuole riprendere il palcoscenico della pubblica opinione cavalcando la tigre dell’indignazione popolare che per meriti propri.

Se però bisogna pensare senza alcun indugio a rimedi efficaci, un’analisi del momento e della situazione ambientale è indispensabile per applicare soluzioni di buon senso.

Il degrado post-pandemia

Partiamo dal degrado morale e culturale che il distanziamento sociale, imposto come soluzione di emergenza alla pandemia, ha elevato a potenza in un tessuto umano predisposto a incubarlo: si sente parlare di fatti simili sugli organi di informazione del resto d’Italia, finanche del mondo; con esiti anche più drammatici quando agli psicopatici è consentita disponibilità indiscriminata di armi da fuoco.

I sociologi e gli studiosi della psiche umana parlano di fenomeni complessi, riferendosi a persone, essenzialmente giovani, che trovano corrispondenza di disturbi comportamentali nei ruoli che assumono nei gruppi e nelle bande: codardia individuale per i ruoli subalterni, che nel gruppo trova massa critica per raggiungere un risultato alchemico di sintesi in rabbia e violenza, da dirigere verso cose o persone che hanno la disdetta di pararsi di fronte al loro procedere; leader esaltati, che sublimano il narcisismo nella strafottenza verso il normale, l’omologato, lo status quo, con nessuna pretesa politica o rivendicativa ma pura protesta che trova nella violenza la propria giustificazione: senza figure di riferimento che non se stessi e l’autocompiacimento di essere a capo del branco, incuranti delle conseguenze perché spogliati di responsabilità, in assenza di beni o reputazione sulle quali sanzioni o condanne possano rivalersi efficacemente.

La zona dove è avvenuto il pestaggio di sabato scorso, in piazza Viviani

La vera riflessione non è perché questi giovani sono così arrabbiati, ma perché sfogano la loro frustrazione nei centri cittadini, contro coetanei senza difese o adulti dall’aspetto tutt’altro che minaccioso; soprattutto quando ci giungono le immagini dei tanti che, nei loro Paesi rischiano, loro sì, incolumità e la vita per combattere per diritti che questi, invece, ignorano e calpestano.

Cosa rende questi giovani così differenti da quelli (iraniani, afghani, cinesi, taiwanesi per rimanere a quelli delle cronache più recenti)? Forse la mancanza di percezione della fortuna rappresentata dal vivere in democrazia, dalla libertà di esprimersi senza timore di ripercussioni, agire al limite della legge senza conseguenze, che la nostra società loro concede? A chi spetta limitare il loro abuso e dare un limite all’anarchia che dimostrano di frequentare?

Come intervenire?

La prima risposta che potrebbe essere suggerita è che è compito della famiglia e della scuola dare le nozioni fondamentali per vivere nella società con rispetto. Ma dove la famiglia è inesistente? Oppure pregiudicata nel suo ruolo di guida del giovane all’impatto con la società? Chi sopperisce? E la scuola, attenta all’insegnamento nozionistico e non alla crescita del senso civico, del futuro cittadino, dove perde efficacia? Sempre che i giovani in questione la frequentino… Che dire poi della difesa dei cittadini, vittime dei soprusi e delle violenze?

Importante sarebbe che l’amministrazione faccia un gesto di solidarietà e vicinanza al giovane ricoverato per le botte ricevute; ma ai veronesi è parimenti dovuto un gesto e un segnale che non deve essere necessariamente  la securizzazione invocata da certi consiglieri comunali: nemmeno la paranoia digitale delle videocamere a ogni angolo di strada, così affine al controllo sistematico del territorio che, quando adottato, fa venire facilmente alla mente gli eccessi dei regimi non democratici; non la carnevalata dell’esercito in strada (inadeguato e funzionalmente improponibile per definizione) ma piuttosto l’evoluzione della funzione della polizia locale che deve tornare ad essere organo di presidio del territorio, costante, presente, previdente e dissuasiva perché manifesta nella ronda notturna e vigile verso gli indizi delle situazioni anomale e che preannunciano il pericolo del reato.

Un’altra immagine di piazza Viviani, con i giardini e la statua di Giuseppe Garibaldi

Attività che, sia chiaro, non deve essere esclusivamente repressiva ma supportata dai servizi assistenziali, sanitari e volontari per risolvere le mille occasioni che alterano la condivisione degli spazi pubblici cittadini tra chi chiede tranquillità e libertà di frequentarli senza timore per la propria incolumità, indifferentemente che sia il centro cittadino o una delle sue periferie.

Alla magistratura si chiede severità per chi è colto in flagranza di reato, con leggi che tutelino la proprietà pubblica, quella privata e la libera convivenza civile. Alle amministrazioni locali di destinare le risorse dei bilanci per garantire sicurezza materiale e morale, sapendo scegliere tra “panem e circenses” e un ambiente curato e vivibile per i cittadini elettori e per i turisti, che alle nostre latitudini cercano sicurezza associata alla storia e alla qualità della vita italiana, famosa nel mondo malgrado le eccezioni stereotipate di alcune destinazioni.

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