Jiang Zemin, ex segretario generale del Partito Comunista cinese (PCC) è morto all’età di 96 anni per le complicanze di una leucemia. Forse non verrà celebrato e rimpianto come altri leader del Paese ma sicuramente alla classe media urbana che ha contribuito a creare con le sue riforme mancherà almeno lo spirito di quei tempi andati, quando si barattavano a cielo aperto le richieste di democrazia con la possibilità di assaggiare un piccolo morso di mondo occidentale.

Muore proprio nei giorni in cui la Cina è scossa da proteste senza precedenti, con centinaia di persone nelle strade a condannare la strategia di lockdown in cui persevera il Segretario attuale, Xi Jinping, con semplici fogli bianchi. Il bianco è il colore del lutto, per le vittime dell’ennesimo incidente correlato, l’incendio in un caseggiato sottoposto a clausura totale da settimane. Bianco anche come denuncia contro la censura, la mancanza di libertà di espressione e di stampa.

Le origini di Jiang

Ingegnere elettrico di Shanghai, Jiang Zemin viene chiamato nel 1954 a dare il suo contributo al piano di creazione del sistema industriale cinese con focus sull’industria pesante in collaborazione con l’URSS. Negli anni Sessanta, la rottura dei rapporti tra i due Paesi mette in crisi il progetto e Jiang torna a casa, al suo vecchio lavoro. Rientra a Pechino nel 1970 e, con Deng Xiaoping, comincia la sua scalata nei ranghi del PCC.

Jiang Zemin

La svolta alla sua carriera avviene nel 1989, poche settimane dopo la feroce repressione di Tian’anmen, quando il quarto plenum del Comitato Centrale del partito lo elegge Segretario. Inizia così oltre un decennio di profondi cambiamenti nel tessuto economico e istituzionale; Jiang intende riportare stabilità nella politica scossa dalle proteste e rassicurare al contempo l’occidente con una progressiva apertura al libero mercato.

Le crisi sociali e politiche europee della seconda metà degli anni Ottanta, tra tutte il crollo del Muro e la glasnost in Unione Sovietica lo spaventano e vira verso il rafforzamento ideologico anche quando possa danneggiare lo sviluppo economico. Jiang impone nello Statuto del PCC il “Pensiero delle Tre Rappresentanze”, che ha l’obiettivo di contrastare “la perdita della moralità e la disintegrazione dei valori tradizionali” e postula per il partito un triplice ruolo per potersi garantire il il sostegno del popolo: il PCC deve rappresentare la forza produttiva innovativa del Paese, dare l’orientamento culturale e perseguire gli interessi della maggioranza dei cittadini.

Intervenire sui quadri ideologici del partito, eliminare la corruzione e le divisioni interne sono azioni che porta avanti insieme a un rinascimento della “cultura spirituale”, attraverso il recupero delle arti tradizionali. A dire il vero, stringe il pugno anche sul controllo dei media, ma non se ne accorge quasi nessuno, in un trionfo di successi economici e sociali.

La crescita secondo Jiang

Grazie al supporto incondizionato di Zhu Rongji, primo ministro detto il Boss, la Cina raggiunge negli anni Novanta l’apice della sua apertura verso i sistemi di mercato tipici del capitalismo. Il Paese resta nella logica della “crescita a tutti i costi” di Deng e vuole recuperare il gap con le grandi potenze commerciali ma lo fa mutando gli attori di questa crescita.

Non sono più i contadini e le piccole imprese dei villaggi a trainare l’economia, nemmeno il polo manifatturiero del sud-est continentale sorto più recentemente. Ora a trainare l’economia sono le banche, le enormi società controllate dallo Stato, i fondi sovrani e i mitologici “centri di ricerca” su cui si fonda la storia tutta cinese della crescita endogena.

Durante il governo di Jiang Zemin, il PIL nazionale scala posizioni a livello mondiale, passando da un 1,4% del PIL globale a superare il 10% nel 2002 (attualmente è oltre il 18%), grazie alle esportazioni e alla capacità produttiva manifatturiera, entrambe al quarto posto mondiale. Anche il reddito pro-capite quadruplica, attestandosi a 3.200 dollari (ora è di 12.600 dollari) e la popolazione cinese che vive sotto la soglia di povertà assoluta passa dal 28,4% del 1993 al 16,6% nel 2001 (dati World Bank).

Separazione tra economia e politica

Jiang cavalca e sostiene il processo di cambiamento, dando un’immagine di solidità e stabilità anche in occasione di possibili crisi, quali quella finanziaria del 1998 e la gestione dell’handover di Hong Kong e Macao. La Cina di Jiang entra nella WTO, l’Organizzaizione Mondiale del Commercio, e si propone al mondo con un socialismo in formato esclusivamente cinese.

Dalla dissoluzione dell’URSS, Jiang sembra dedurre che va creata una separazione netta tra sfera economica, da integrare con alcune caratteristiche delle potenze capitaliste, e sfera politico-istituzionale che non può farsi trascinare in un contesto come la glasnost.

La prima morte dell’ingegnere

Metaforicamente Jiang muore nel marzo 2002, con la creazione della SASAC, l’ente statale per la supervisione e gestione delle imprese, organismo che si pone come interlocutore istituzionale per i soggetti terzi, anche internazionali, e in questo senso migliora l’affidabilità del tessuto imprenditoriale, sia in caso di investimenti sia per i contenziosi.

SASAC però vuole intervenire sul mercato, riporta lo Stato nell’economia: vengono selezionate un centinaio di aziende su cui puntare per il futuro di un Paese che vuol fare il salto di qualità dalla mera fabbrica di “robaccia” per il mondo intero a polo di innovazione e tecnologia. Programma conseguito poi attraverso con un piano di privatizzazione tutto cinese, affidando le imprese più promettenti a finanziarie create per l’occasione.

Tornando al presente

I fogli bianchi accompagneranno le esequie del politico della “Terza Generazione” politica cinese. Il PCC non ha una soluzione immediata per contrastare le proteste. L’unico modo, cioè allentare la politica di lockdown, farebbe innervosire il Grande Leader attuale, che ne ha fatto una vera e propria ossessione. Quando forse avrebbe potuto vaccinare…

La lacunosa campagna vaccinale (solo il 30% dei soggetti fragili ha ricevuto almeno due dosi) si combina alla scarsa efficacia dimostrata dei vaccini cinesi rispetto a quelli occidentali. Gli analisti di Nomura e The Economist concordano largo circa sui numeri: se la Cina abbandonasse ora la politica Zero-Covid, si potrebbero avere 360 milioni di contagi, 5,8 milioni di cinesi in ospedale e oltre 600 mila morti. In quattro settimane.

Che botta sti lockdown

Nel frattempo l’economia cinese incassa il contraccolpo dei minori consumi e della diminuita produttività: il numero dei voli interni si è ridotto della metà, i trasporti locali viaggiano alleggeriti di un terzo e alcune delle più importanti catene di intrattenimento hanno chiuso definitivamente. Le città in lockdown, complessivamente, cubano un quinto del PIL cinese e la disoccupazione giovanile sfiora un 20% che non ha precedenti. Le agenzie di rating rivedono le stime di crescita del 2022 (da 3,3% a 2,8%) e 2023 (da 4,8% a 4%).

In attesa di arrivare a decisioni illuminate, sembra uno spreco non approfittare di tutti gli investimenti in tecnologie di sicurezza e controllo fatti con la scusa dei lockdown. Ecco quindi che sui social vengono denunciate perquisizioni e controlli di cellulari sui passanti, verifiche sulle attivazioni di VPN e monitoraggio da remoto degli spostamenti. A cui si aggiungono azioni di polizia per prevenire o disperdere gli assembramenti, pestaggi e arresti immotivati dei manifestanti e ronde notturne dei quartieri più a rischio. Le affidabili buone vecchie maniere di ogni governo autocratico che si rispetti.

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