I suoi due anni in convento gli hanno fatto capire che, nel bene o nel male, ogni costrizione lo deprime. Fabrizio Valenza ha una biografia particolare: dal lavoro in banca è passato all’insegnamento, laureandosi prima in Filosofia e quindi in Scienze religiose. Non ha tralasciato nel contempo la sua grande passione per la scrittura: dal 2007 fa infatti esperienza di self publishing e di piccola e media editoria. In 15 anni escono altrettanti romanzi, di cui l’ultimo, L’isola dei Morti, ambientato nel 1885 ha per protagonista l’antropologo veronese Andrea Nascimbeni. La trama si svolge alla cosiddetta “isola dei morti”, al largo della costa ligure di Zoagli, dove l’uomo si reca dopo averne viste rappresentate le “esotiche” strutture funerarie nei dipinti dell’amico Arnold Böcklin. Ad accoglierlo, una località senza nome dall’atmosfera soffocante, che lo porterà in uno stato di alterazione e a fare degli incontri misteriosi, perché nulla è come sembra.

Martedì 29 novembre 2022 alle ore 16.30 si terrà al Museo di storia naturale di Verona la presentazione del libro edito con Albero del mistero, insieme all’antropologa Irene Dori, responsabile per la tutela dei beni antropologici della Soprintendenza di Verona.

Valenza, come è arrivato alla scrittura?

La copertina del nuovo romanzo di Fabrizio Valenza, L’isola dei morti.

«Ciò che caratterizza uno scrittore è il desiderio di raccontare una storia indipendentemente dall’importanza che può avere per gli altri e io ho sempre sentito fin da bambino questo bisogno. La mia fortuna è stata che, grazie a mia madre e mio padre, ho avuto a disposizione nella libreria di famiglia una grande quantità di storie avventurose. Sono spesso andato in cerca dei racconti di Salgari: il talento di questo autore stava proprio nel far rivivere dei luoghi esotici senza che lui ci fosse mai stato. Questa libertà mi è rimasta dentro e ho desiderato emularlo. Dunque per me scrivere è stato avere il desiderio di fare quello che aveva fatto qualcun altro. Ho capito però che mi sarei voluto dedicare alle storie fantastiche quando lessi Tolkien, che rappresenta l’Omero del genere fantasy».

Che ruolo hanno giocato le sue esperienze personali e formative nel realizzare questa scelta?

«Nel mio percorso sono stati spesso gli errori che ho fatto a farmi capire che stavo seguendo la strada giusta. All’università mi iscrissi inizialmente a Lettere, anche se poi passai a Filosofia, ma fu proprio in quella prima sede che realizzai i miei primi romanzi, anche se poi non li ho mai pubblicati. Inoltre, è stato proprio durante i due anni in convento che scrissi alcuni degli snodi più importanti del mio primo romanzo Storia di Geshwa Olers, che ha poi riscosso un certo successo».

Quali scrittori sono cruciali nella sua pratica espressiva?

«I principali di riferimento sono Paul Auster, Ian McEwan, Stephen King, Italo Calvino e Umberto Eco. Tutti per delle motivazioni diverse. La mia scrittura è il risultato delle loro influenze».

Nell’ultimo libro “L’Isola dei morti” ci sono dei riferimenti chiari all’omonimo quadro di Arnold Böcklin. Perché questa scelta?

«La storia in realtà è nata prima di venire a conoscenza dei quadri di Böcklin, difatti ha avuto origine dall’omonimo poema sinfonico di Sergej Rachmaninov. Sono giunto ai quadri proprio attraverso la sinfonia, perché furono di ispirazione per lo stesso compositore. Mentre per me la musica ha rappresentato una visione: ogni parte dello spartito era come se avesse una sua corrispondente nel libro». Però una volta visti, i dipinti sono diventati l’elemento cardine dell’ambientazione del romanzo. Nello specifico ho preso come riferimento la serie di cinque quadri L’isola dei morti e L’isola della vita. Per quest’ultimo il riferimento lo troviamo all’inizio del romanzo, quando il protagonista sbarca dalla parte opposta dell’isola, rispetto a dove si svolgeranno poi le vicende».

L’isola dei morti (Die Toteninsel) è il nome di cinque dipinti del pittore svizzero Arnold Böcklin realizzati tra il 1880 e il 1886. 

Quanto pensa sia attuale il romanzo gotico? E soprattutto chi sono i lettori di questo genere? Sono più giovani o adulti?

«Il romanzo gotico credo possa avere presa su chiunque dai 18 anni in su. Pongo questa discriminante solo perché il libro, essendo particolarmente emotivo, credo possa essere maggiormente compreso da una persona più matura. Questa sua facile fruizione deriva dalla periodica rielaborazione del genere. Per esempio, in Italia va molto il gotico rurale. Un esempio lampante sono le produzioni filmiche di Pupi Avati: storie horror per la maggior parte ambientate in casolari di campagna».

Come crede si possa evolvere questo genere? Anche in una prospettiva di mercato?

«A livello di mercato è un genere di nicchia e che deve far fronte al pregiudizio che i lettori nutrono, spesso senza neanche conoscerlo. In Italia però ha il vantaggio di avere molto spazio per riprendersi ed evolversi: andava molto di moda tra gli anni Sessanta-Ottanta, anche se è sempre stato in sottotono. Del resto, pure in ambito anglosassone ci sono state delle resistenze, anche se ha il vantaggio di avere una più lunga tradizione: basti pensare agli innumerevoli scrittori britannici e americani, ad esempio come Mary Shelley o Stephen King».

Cosa fa nello specifico promuovere la sua produzione e raggiungere i lettori?

«Essendo un romanzo auto-pubblicato ho puntato molto sui social, che sono uno strumento fondamentale. Li ho usati tutti: il blog, Instagram, Facebook, Tumblr, Tik Tok. Inoltre, ho affiancato una promozione vera e propria con incontri e presentazioni».

Cosa è cambiato in questi quindici anni di pubblicazioni? Quali sono stati gli errori da cui ha più imparato?

«Ho fatto moltissimi errori, in particolare in campo editoriale. Quello che ho imparato è che le case editrici non si occupano della diffusione del tuo nome, lo fanno solo per scrittori già importanti e famosi che garantiscono un certo ritorno. Inoltre, uno degli errori più importanti da non fare come scrittori è quello di credere che ciò che si è scritto sia fondamentale: non è mai così».

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