Chi paga i danni ai Paesi poveri, meno responsabili delle emissioni di gas serra ma più vulnerabili alle conseguenze dei cambiamenti climatici, provocati dai paesi ricchi?

A Sharm el-Sheikh, alla COP27, assemblea condominiale del Mondo, i delegati di 198 paesi hanno tentato di rispondere alla domanda che da anni viene portata avanti dai paesi emergenti.

Vanessa Nakate, fondatrice del Rise Up Climate Movement, Uganda
al meeting annuale del World Economic Forum 2022 a Davos. Copyright World Economic Forum / Walter Duerst

“Non ci si può adattare alla perdita della nostra cultura e della nostra storia” spiegava l’attivista ugandese di Fridays for Future Vanessa Nakate lo scorso anno alla COP 26 di Glasgow dando voce ai paesi che meno hanno contribuito al cambiamento climatico.

Con il termine Loss&Damage  questa tematica è entrata nell’agenda dei negoziati sul clima con l’obiettivo di creare uno strumento, una struttura finanziaria che possa essere attivata per riparare i danni climatici che si stanno verificando e che inevitabilmente si verificheranno in futuro nei paesi poveri.

Non si tratta solo di giustizia inter-regionale ma anche di un potente stimolo ai paesi ricchi a cambiare modello di sviluppo e annullare le emissioni di gas climalteranti, Affermare il principio che “chi inquina paga” serve per ricordare ai paesi emettitori che, come sostiene l’IPCC, senza efficaci azioni di mitigazione il cambiamento climatico presto travolgerà anche loro.    

Non c’è piena giustizia climatica senza mitigazione

Il successo dei negoziati sarebbe stato misurato quindi su due fronti complementari: la costituzione del fondo per i paesi poveri e il contemporaneo impegno dei paesi ricchi di rispettare almeno l’accordo di Parigi di mantenere l’aumento delle temperature globali sotto il +1,5°C (oggi siamo a +1,2°C).

Non è difficile immaginare le difficoltà negoziali.

Un braccio di ferro durissimo fra i paesi “donatori”, ma anche emettitori, Usa, Europa, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giappone , i 134 paesi “vulnerabili” raccolti nel gruppo G77+China e i paesi “petrolieri”, dai padroni di casa egiziani alla vicina Arabia Saudita.

Fino all’ultimo i delegati disperavano di raggiungere un qualsiasi accordo.

Il Presidente statunitense Joe Biden a nome dei “donatori” ha proposto lo “Scudo Globale”, uno strumento assicurativo lanciato dai tedeschi al G7, come forma per coprire finanziariamente i danni climatici mentre i “vulnerabili” rimanevano fermi sulla richiesta di creare un vero fondo a disposizione per fronteggiare le loro emergenze climatiche.

Il compromesso finale

A sbloccare la situazione, all’ultimo momento, è arrivata una proposta europea formulata dal Vicepresidente della Commissione Europea  e Commissario per il Green Deal  Frans Timmermans.

Un compromesso articolato che include sia lo Scudo Globale che la possibilità di aggiungervi  altri strumenti finanziari fino a comporre un “mosaico di fondi” come auspicato dai paesi in via di sviluppo.

Timmermans ha però corredato la proposta di particolari per niente trascurabili e destinati cambiare la governance climatica dei prossimi anni.

L’Impegno a creare da subito (in questa COP) un fondo, con risorse  pubbliche, private o di altro tipo  sarà rivolto agli piccoli Stati insulari e oceanici (per esempio, il Pakistan rimarrebbe fuori) mentre i paesi emergenti di grandi dimensioni (leggi: China ma anche Arabia Saudita) dovranno contribuire. Il nuovo fondo opererebbe solo sotto l’Accordo di Parigi e sarà basato su principio di responsabilità storiche e capacità di  emissione di gas climalterante.

Un piccolo passo avanti, significativo anche se la definizione delle condizioni operative del fondo è rimandata alla prossima COP 28 che si terrà a Dubai nel novembre 2023. 

Stanare Pechino

Disposizioni che non sono particolarmente piaciute alla Cina la quale, come si vede dalla figura, ha una bassa emissione di CO2 pro capite ma è una grande emettitrice globale.

Emissioni pro capita e totali dei diversi Paesi (fonte: CO2 Emissions of the world countries 2022)

La China è al primo posto come emettitore di gas serra ed è responsabile di metà delle emissioni prodotte dall’uso del carbone, inoltre, essendo la seconda economia mondiale, ha di certo le risorse finanziarie per contribuire alla creazione del fondo Loss&Damage. A questo punto Pechino dovrà decidere se relazionarsi al fondo come erogatore o come beneficiario.

Successo parziale

L’accordo Loss&Damage è però un successo parziale della COP 27.

A Sharm el Sheikh non si è fatto abbastanza per la mitigazione dell’emergenza climatica ed è persino mancato l’impegno dei paesi ricchi di mantenere l’aumento delle temperature globali sotto il +1,5°C.  Il documento finale non dice nulla sulla eliminazione dell’uso dei combustibili fossili, solo una riduzione della produzione elettrica a carbone.

Se non si tagliano le emissioni di CO2, le strategie di adattamento e di compensazione dei danni previsti dalla Loss&Damage diventerebbero impossibili da gestire.

«Che senso ha discutere di come pagare i danni senza occuparsi delle azioni che servono a ridurli?» ha detto il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres aggiungendo: «Bisogna essere chiari: il nostro pianeta è ancora in una situazione di emergenza, dobbiamo ridurre subito drasticamente le emissioni e questo non è stato affrontato. Il fondo per le perdite e i danni è essenziale, ma non è la risposta se la crisi climatica cancella della mappa un piccolo Stato insulare o trasforma completamente un Paese africano in un deserto».

Abdel Fattah El-Sisi, president dell’Egitto, che ha ospitato la Cop27, con il segretario generale dell’Onu António Guterres. Foto UNclimatechange.

Trasparente il disappunto del capo della delegazione Unione Europea Frans Timmermans: «Siamo orgogliosi di aver contribuito a risolvere il problema del Loss &Damage, ma sulle riduzioni delle emissioni qui a Sharm el Sheikh abbiamo perso un’ occasione e molto tempo. La soluzione non è finanziare un fondo per rimediare ai danni, è investire le nostre risorse per ridurre drasticamente il rilascio di gas serra nell’atmosfera».

Per quanto riguarda l’Italia (a parte la breve puntata “diplomatica” in Egitto della premier Giorgia Meloni), a differenza di altri Paesi europei, la presenza delle nostre istituzioni nella Conferenza e la possibilità di incidere è stata del tutto marginale.

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