Li avevamo visti e vissuti una ventina di anni fa, a Bussolengo, quando con i primi peli le idee impazzano e oggi, alla fine del concerto che i Marlene Kuntz hanno tenuto al The Factory di San Martino Buon Albergo, è netta la sensazione che sia definitivamente passata la sbornia anni ‘90 delle chitarre distorte e sporche, dei Sonic Youth, dell’avanguardia che si opponeva al pop alle soglie della decadenza di Dangerous di Michael Jackson con movimenti come grunge, stoner, alternative, noise, fino ad ibridazioni curiose come i Primus.

Il grande pubblico, che in Italia pareva essersi innamorato di loro così come dei Bluvertigo, degli Afterhours e altre proposte oggi non più replicabili, si è dileguato perché – come ha ammesso a suo tempo lo stesso Cristiano Godano – non si era davvero convinto ma solo fatto trascinare da una moda momentanea. Sparite in fretta le nuove generazioni come le camicie di flanella a quadri, il pubblico è per buona parte matura onda residuale degli anni che furono.

Tuttavia, mentre la reunion dei Bluvertigo a Camaiore (giungo 2022) ci ha mostrato un’istantanea di un gruppo a stento sopravvissuto a un naufragio, con un Andy indeciso se provare costernazione o senso del ridicolo per un Morgan imbarazzante, inseguito dal tecnico del palco come una balia rincorre un bambino dimentico di sé, desta invece maraviglia la serietà professionale e la coerente dignità dei Marlene Kuntz, che si presentano con un progetto-concept album italiano, Karma Clima (per Ala Bianca, Warner).

Un disco che guarda al politicamente impegnato, mettendo insieme musica e difesa dell’ambiente; i testi, nella tradizione di Godano, evitano tuttavia il realismo e mettono a fuoco un disappunto esistenziale e cerebrale evidente in brani (riusciti) come Vita su Marte. Un progetto che sembra, nella filosofia d’insieme, provenire da una gloriosa quanto passata dimensione musicale che si credeva perduta, in tempi come questi poi in cui le classifiche premiano rapper-pop stranieri ed italiani, Fedez e Maria De Filippi, donna-ecosistema quest’ultima che tiene insieme XFactor, Sanremo e Mediaset e una musica che d’oggigiorno la fanno utilizzando i macchinari (EELST).

Si parte con una buona oretta di ritardo ma lo si perdona subito dato che Godano e soci aprono con Come stavamo ieri e, prima di presentare i pezzi del nuovo album, una cavalcata di chitarre distorte e di effetti che, chi ha seguito lungamente Moore, Ranaldo e Gordon conosce bene.

La pancia del concerto presenta, come detto, i nuovi brani e alcuni passaggi intermedi del percorso della band. Come il recente Cyr degli Smashing Pumpkins, modesto episodio che mostra come il fascino dei sintetizzatori degli anni ’80 abbia stregato molte band in questo inizio di decennio, anche per l’ultimo capitolo dei Marlene i sintetizzatori hanno un certo spazio insieme al ricorso ad arrangiamenti orchestrali con la tastiera e i synth della Nord di Davide Arneodo.

Si creerebbe così un tappeto trasparente per dare respiro alle parole, ma usiamo volutamente il condizionale perché a causa di una gestione dei suoni non ottimale almeno all’inizio si fatica davvero a riconoscere le parole cantate e urlate; peccato. Forse per questo distacco forzato dalla narrazione, per un secondo, per un maledetto e devastante secondo, i Marlene Kuntz sembrano quei ragazzini che da piccoli invidiavi perché riconoscevi loro un’essenza superiore e che, vent’anni dopo, te li trovi a girare per i soliti bar col bianco alla spina mentre guardano il culo alla barista. Sensazione che per fortuna passa subito mentre la cover di Impressioni di settembre risuona cristallina e nitida.

Per la gioia dei fan, a grande richiesta, il concerto si chiude con una nuova incursione nell’alternative-noise e i grandi classici, Nuotando nell’aria e Sonica, lasciata quest’ultima strumentalmente a chiudere in loop.

Di questo concerto si può dire molto e poco allo stesso tempo. Per chi li ha amati fino al 2000, non rimane che ammirare la consumata abilità tecnica pur nella fatica a riconoscerli sotto molti aspetti, non magari nella scrittura – sempre allusiva, colta e tendente all’ermetico, mai didascalica né ruffiana – quanto piuttosto nel suono più pulito e addomesticato, nelle ridotte composte ed educate scorribande elettriche.

I tempi della rabbia sono finiti. I nuovi Marlene Kuntz, dopo la parentesi quasi cantautorale di Bianco Sporco (2005) e il ritorno a vecchie sonorità con Una Lunga Attesa (2016) sono in una fase, per chi scrive, che sembra cercare una propria chiave in un mix di modernità nelle ritmiche di batteria tecno-pop (non a caso, alla batteria Sergio Carnevale dei Bluvertigo) e testi che non cedono alla rima facile o meccanica né alla piaga delle barre a cazzo di cane. Il tentativo, dunque, pare quello di volersi incuneare nella modernità dosando sonorità sintetiche, testi più poetici che musicali e residui noise; rimane percepibile il rischio di rimanere, nella traversata verso un nuovo approdo, in mezzo al guado.

Come stavamo ieri, sarà così domani? Dimmi di sì.

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