Roger Federer, l’idea che ho del tennis
Roger Federer ha davvero deciso di ritirarsi. Lo sapevamo tutti che questo giorno sarebbe arrivato ma, in fondo, non ci volevamo credere.
Roger Federer ha davvero deciso di ritirarsi. Lo sapevamo tutti che questo giorno sarebbe arrivato ma, in fondo, non ci volevamo credere.
Lo sapevamo tutti. Sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato. Anche se in questi ultimi anni abbiamo finto di non saper leggere le avvisaglie, nell’illusione che certe storie possano chiudersi solamente con un grande finale. Don’t look up abbiamo pensato, sperando che potesse ancora una volta riavvolgere il nastro del tempo. Adesso però la cometa è lì, in mezzo al cielo e visibile ad occhio nudo. Adesso Roger Federer ha davvero detto basta.
Esattamente come nella satira di Adam McKay, è arrivato il momento in cui è impossibile continuare a fingere. A disintegrare lo specchio, in un mezzogiorno di fine estate, è stata una lettera su carta intestata. Pochi fogli, un messaggio registrato e una decina di giorni di tempo per abituarci a un tennis senza Federer. Per preparare l’ultimo omaggio all’uomo che più di tutti ci aveva fatto dimenticare l’usura, fisica e mentale, che comporta esibirsi a certi livelli per vent’anni.
Il meteorite ha impattato. E sembra impossibile non poter più leggere il suo cognome nel tabellone di uno Slam. Eppure, di fatto, tutto ciò è già avvenuto. Realisticamente è da più di un anno che Roger Federer non appare in campo. L’ultima sua partita da professionista è stata il 7 luglio 2021, sul Centre Court, mestamente eliminato nei quarti di Wimbledon da Hurkacz.
Ma allora, se davvero era tutto già finito da tempo, perché siamo così sorpresi? Perché fa così male il pensiero che un tennista di 41 anni, per tre volte operato al ginocchio, decida di non chiedere oltre al proprio corpo? È possibile che siamo di colpo tutti impazziti, vittime di un’allucinazione collettiva che ce lo fa ancora vedere in vetta al ranking e pronto a rispondere ad una prima di servizio? Sì, è possibile. E la colpa è tutta di Roger.
È possibile, anzitutto, perché è stato proprio Federer a dimostrarci l’aleatorietà del tempo. Lo ha fatto a 36 anni, quando ne erano passati 5 dalla vittoria del suo ultimo Slam e il tramonto sembrava accertato. Lo ha fatto regalandosi due Australian Open e l’ottavo Wimbledon. Riprendendosi lo scettro del tennis mondiale senza il livore vendicativo del monarca restaurato, ma con l’imperturbabilità di chi sta semplicemente rispondendo all’ordine naturale delle cose.
Se quindi non si tratta di allucinazione, dev’essere qualcosa che ci si avvicina molto. Per Paolo Bertolucci, ad esempio, “Federer è stato un sogno, cioè la possibilità di vedere realizzata la perfetta fusione tra il tennis dei gesti bianchi e la forza della modernità, senza snaturare una classe che non conosceva confini”. E forse, in quel sogno, ci siamo finiti tutti.
Un sogno che ci riporta sempre lì, sul centrale di Wimbledon, nel tardo pomeriggio del 14 luglio 2019. La finale più lunga della storia del torneo, con Federer che sta per giocarsi il secondo matchpoint contro Djokovic. Un dritto d’attacco troppo corto e la firma in calce al romanzo la mette Nole, più cannibale dello svizzero, da sempre. Nel sogno in cui ci cullavamo c’era un’altra finale sull’erba londinese, e Roger che abdica con la coppa tra le mani. Pensare che solo un’ultima, grande, vittoria fosse il finale di carriera adeguato è però irrispettoso, e riduttivo, verso ciò che Federer rappresenta. Un qualcosa che è sempre andato ben oltre il campo da gioco.
Secondo Antoine de Saint-Exupéry “un ammasso di roccia cessa di essere un mucchio di roccia nel momento in cui un uomo la contempla avendo in mente l’idea di una cattedrale”. Per l’autore del Piccolo Principe è l’idea a trasformare la materia primigenia in arte, allo stesso modo Federer ha plasmato l’immagine che milioni di persone hanno del suo gioco. Perché Roger Federer è l’idea che io ho del tennis.
L’idea che non tutto si limiti ai muscoli, ai punti o ai trofei conquistati. Che ci sia dell’altro, che dimensioni diverse possano di colpo avvicinarsi. Ecco allora che l’uomo impegnato a correre da un lato all’altro del campo non è più un semplice tennista. E pure quel campo non è più lui, è un palcoscenico, l’Opéra, e quello che volteggia è Nureyev, avvolto nella sua sconfinata eleganza. Probabilmente aveva ragione David Foster Wallace quando, nel descrivere l’esperienza mistico-religiosa dell’assistere a un match di Federer, lo dipinge come “una creatura con il corpo fatto sia di carne sia, in un certo senso, di luce”.
La malinconia con la quale abbiamo vissuto questi mesi, tra sorrisi forzati e attese di fantomatici recuperi è simile a quella provata solo con Marco Van Basten, un altro di quelli toccati dalla luce. Operazioni, allenamenti, foto di corsette e palleggi, prima di arrendersi ad una caviglia ormai senza più cartilagine. Se per il Cigno di Utrecht c’è stato il dolore nel vedere una carriera spezzata nel suo prime, con Federer abbiamo quantomeno la consolazione di aver goduto di tutto il tennis che quel corpo poteva distillare.
Logico, arrivati a questo punto, aprirsi a nuove strade. Prima di farlo, però, c’è tempo per un ultimo show. In quella Laver Cup che ha contribuito a fondare e che si chiuderà con la sfida con l’avversario di sempre, Rafael Nadal. Ha scelto di fermarsi Federer. L’ha fatto ricordandoci che, in fondo, non è finita. To the game of tennis: I love you and I will never leave you.
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