D-Hub e il lavoro dalle donne per le donne
Intervista a Maria Antonietta Bergamasco, presidente di un’associazione di Veronetta che si occupa dell’inserimento sociale e lavorativo delle donne, in un contesto che le vede spesso svantaggiate
Intervista a Maria Antonietta Bergamasco, presidente di un’associazione di Veronetta che si occupa dell’inserimento sociale e lavorativo delle donne, in un contesto che le vede spesso svantaggiate
A Veronetta è presente da quasi 10 anni D-Hub, un’associazione di promozione sociale, nata per promuovere percorsi di inserimento sociale e lavorativo. L’attività dell’associazione è rivolta soprattutto alle donne che a causa di un contesto di partenza spesso svantaggiato, vengono maggiormente escluse dal mercato del lavoro, della formazione e dal riconoscimento delle loro competenze. Ne parliamo con Maria Antonietta Bergamasco, presidente e socia fondatrice dell’associazione.
Bergamasco, innanzitutto com’è strutturata D-Hub?
«L’idea principale su cui si basa è quella di avere diversi contesti formativi: quello più strutturato della sartoria in via Trezza, con una formazione fatta attraverso i tirocini; uno spazio più creativo al giardino Nani, dove vengono organizzati dei laboratori creativi; e infine un mercato e banca del tessuto in via XX Settembre. Quest’ultimo progetto è tenuto in piedi da un sistema di socio-sostenitori che donano delle stoffe perché abbiano nuova vita. Queste donazioni ci permettono inoltre di dare un sostentamento alle donne che sono state nei nostri percorsi e vogliono proseguire a cucire. Difatti i tirocini consistono in corsi di taglio e cucito, che realizziamo con il Centro Diocesano Aiuto Vita, in cui utilizziamo un manuale disponibile in trenta lingue, per venire incontro alle esigenze linguistiche. Cerchiamo poi di mettere a disposizione macchine da cucire per rendere le persone del tutto indipendenti. Questo supporto viene poi mischiato con dei processi di sviluppo di comunità del quartiere: per esempio il giardino Nani è prima di tutto un laboratorio di relazioni in cui il vicinato si incontra. La nostra idea generale è di concentrarci sul valore piuttosto che sul bisogno e difficoltà.»
Come interagite con le partecipanti che non conoscono l’italiano?
«In realtà le donne che incontriamo sono principalmente di alcune aree europee o di luoghi del mondo dove è presente l’inglese come lingua vicaria, come il Ghana o la Nigeria. Nei casi dove questo non è possibile c’è la lingua dei gesti e del fare assieme.»
Come mai la scelta di dedicare questa associazione alle donne?
«Purtroppo siamo un paese che non mette nelle sue priorità la valorizzazione del lavoro e talento femminile. Basti pensare al gender-gap e a come sia effettivamente più facile trovare dei percorsi di reinserimento nel mondo del lavoro per gli uomini.»
D-hub è anche una realtà politica?
«Sì, se pensiamo la politica nell’accezione originaria della Polis greca, come bene comune. Difatti D-hub è nata da un’esperienza di volontariato politico, con lo scopo di risolvere un problema, come la povertà o l’inserimento lavorativo, ma anche di impattare e cambiare la visuale rispetto al femminile e alla marginalità. Mentre se per politica pensiamo alle proteste o lotte, dobbiamo precisare che non sempre prendiamo posizione, o meglio su alcune cose cerchiamo di mantenerci apolitici e apartitici. In questo senso il confine è sottile, poi tante di noi hanno comunque un’impostazione ‘popolare’. In ogni caso è snervante vedere che alcuni concetti come l’aiuto verso il prossimo e l’inclusione vengano considerati di destra o sinistra. Mi rifiuto di pensare che alcune cose come il contrasto alla povertà appartengano a un partito. In parte ci interessa anche dare questo messaggio ai nostri politici: anche se sono eletti dalla maggioranza devono rappresentare tutte le minoranze. Ora che è cambiata l’amministrazione non speriamo in un miracolo, ma almeno in un modo diverso di vedere la politica e attivismo. Noi siamo per una visione universale per cui, essendo uomini e donne, reputiamo che niente di umano ci sia estraneo.»
Come venite messi in contatto con le donne che hanno preso parte all’associazione?
«Abbiamo costruito dei canali istituzionali, cioè collaboriamo con il comune, con l’area adulti e con dei percorsi come quello per il reddito di inclusione attiva. Ci sono poi il servizio di integrazione al lavoro e inoltre realizziamo dei progetti con alcune realtà del privato sociale: per esempio il Centro Diocesano Aiuto Vita o la Comunità dei Giovani Onlus con le donne vittime di tratta. Di base vogliamo sradicare l’idea della persona bisognosa e debole. È innegabile che una persona sia stata una vittima, ma gli deve essere possibile riconoscersi come potenti, forti e capaci, nonostante sia un qualcosa da costruire.»
Questa associazione viene descritta come un ‘passaggio’: siete riusciti poi a indirizzare nel mondo del lavoro chi avete formato?
«Sì, e in qualche modo siamo diventate anche imprenditrici. Abbiamo un’efficacia di circa il 50%, considerando anche le forme ‘ibride’: difficilmente una madre con tre figli in questa fase è in grado di gestire un lavoro strutturato, ma in ogni caso si registra un aumento del reddito. L’obiettivo però non quello di una crescita quantitativa ma qualitativa del contesto, che diventi la città stessa un laboratorio di inclusione.»
Qual è la durata media di permanenza?
«I tirocini dovrebbero durare circa tre mesi, ma quando si impara un lavoro da capo e si deve inoltre lavorare sull’autorizzazione e indipendenza delle donne (per esempio dopo un matrimonio finito) i percorsi possono durare anche fino a nove o dodici mesi. Non vogliamo sia sfruttamento, ma un percorso più lungo più c’è possibilità di costruire. Inoltre, nel percorso le donne sono affiancate da Manuela, una sarta modellista, che prima di tutto è però una psicologa. Così una volta a settimana in sartoria c’è un incontro di costruzione del team, per dare anche strumenti di analisi di risoluzione dei conflitti.»
Avete in ballo anche un progetto di Co-housing?
«Sì, abbiamo un appartamento che dovrebbe ripartire ad ottobre con tre coinquiline. Vuole contrastare il costo delle abitazioni, anche se ora con l’aumento dei consumi sarà più complicato. È un progetto molto difficile, però posso dire che siamo stati molto sostenuti dalla comunità veronese, anche perché c’è un interesse condiviso.»
Quali sono gli obiettivi per il futuro?
«L’obiettivo principale è quello della stabilizzazione e poi soprattutto non perdere l’aspetto di sviluppo della comunità, perché come afferma Morniroli «una società coesa è il presupposto per lo sviluppo economico e non il punto di arrivo.»
Tutte le foto dell’articolo sono di Corrado Benanzioli e Osvaldo Arpaia.
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