Che fine ha fatto il Presidente?
Figure iconiche, tifosi prima ancora che dirigenti, che hanno fatto parte dell'immaginario del nostro calcio. E che ora stanno scomparendo.
Figure iconiche, tifosi prima ancora che dirigenti, che hanno fatto parte dell'immaginario del nostro calcio. E che ora stanno scomparendo.
C’era una volta Romeo Anconetani, che portava i giocatori del Pisa in pellegrinaggio e per scaramanzia spargeva il sale sul campo da gioco prima delle partite. C’era una volta Costantino Rozzi, costruttore di stadi che assieme a Carletto Mazzone portava l’Ascoli in Serie A. C’erano una volta i “presidentissimi”, tifosi prima ancora che dirigenti, che hanno segnato un’epoca del calcio e dello sport italiano in generale.
Nell’universo dello sport professionistico di alto livello la figura del patron è in via d’estinzione. Se guardiamo ai club di rango internazionale, poi, è praticamente scomparsa. Soppiantata prima dai grandi magnati del petrolio, poi da quelli russi e dell’estremo oriente e, infine, dai fondi di investimento dalla composizione più o meno variegata. Di queste ore, ad esempio, l’entrata dei New York Yankees, Lebron James e il rapper Drake tra i soci di RedBird Capital nell’acquisizione definitiva del Milan. Oppure sull’approdo dell’ex leggenda dell’Arsenal Thierry Henry tra gli azionisti del Como.
È la globalizzazione, bellezza. È la fine del calcio della gente, dicono i più reazionari. Come se lo fosse mai stato, della gente. Molto più prosaicamente, è la naturale evoluzione di uno sport business che deve essere in grado di attrarre tifosi da Shanghai a San Francisco.
Superando i legami territoriali a cui i club sono stati legati fino all’ingresso nel nuovo millennio. Un processo che vede il calcio italiano ancora in ritardo rispetto ad altre leghe. Rendendolo terra di conquista per gli investitori stranieri.
Facciamo un passo indietro di 20 anni, stagione 2002-03, terminata con tre italiane in semifinale di Champions e con la finalissima tra Milan e Juventus. A Manchester, sul palcoscenico dell’Old Trafford, il canto del cigno di quel modello italiano che aveva dettato legge in Europa nelle stagioni precedenti. Diamo un’occhiata alle composizioni societarie di quella serie A.
Berlusconi e Moratti alla guida delle milanesi, col Milan all’inizio del suo ultimo grande ciclo e l’Inter reduce dal 5 maggio. La solidità di una Juve che a metà stagione dovrà fare i conti con la scomparsa di Gianni Agnelli. Dietro di loro, Lazio e Parma, mettiamoci pure la Roma (arrivata 8^ quell’anno), club che nelle stagioni precedenti si sono spartiti scudetti, coppe nazionali ed europee.
Le prime due nel giro di qualche mese verranno travolte dai crac Cirio e Parmalat, con i presidenti Cragnotti e Tanzi costretti a passare la mano. Fine dei sogni.
La Roma della famiglia Sensi durerà un po’ di più, ma senza poter competere ai livelli precedenti. Ci sarebbe il Chievo che ha appena iniziato a scrivere la sua favola, finita la scorsa estate nella maniera più triste.
A metà classifica arriverà il Perugia di Luciano Gaucci, pronta a conquistare un’insperata Intertoto, salvo poi deflagrare nella bancarotta fraudolenta del suo presidente, nella retrocessione e nel fallimento. Gaucci, nel frattempo, aveva già riparato in Repubblica Dominicana. Un posizione più in basso troviamo il Bologna di Giuseppe Gazzoni Frascara agli ultimi acuti. La retrocessione dell’anno dopo lo porterà a cedere il club di cui è stato prima sponsor e poi iconico presidente. Chiude la classifica il Torino, che nel giro di qualche mese passerà nelle mani di Urbano Cairo.
You better start swimmin’ or you’ll sink like a stone, for the times they are a-changin’. È meglio se iniziate a nuotare o affonderete come pietre, perché i tempi stanno cambiando. Bob Dylan è stato facile profeta, ma come molti profeti, il loro destino è essere inascoltati. Oppure è perché le rivoluzioni non possono divampare nel benessere, vero o presunto. Ecco allora che nei primi anni 2000 la Premier league si prepara al sorpasso definitivo, mentre in Italia milioni di tifosi si crogiolano nell’identificare le proprie squadre con la figura di un presidente che spesso lega la sorte del club a quella della propria azienda o attività imprenditoriale. Mettendole a rischio entrambe.
Vent’anni fa il calcio italiano non ha saputo annusare il cambiamento nell’aria. Le crisi finanziarie degli anni successivi, la poca propensione ad innovare e a prendere spunto da modelli più performanti hanno fatto il resto. Regalandoci episodi tragicomici, come le conferenze stampa di Giampiero Manenti a Parma, o lo stemma tatuato sull’addome dell’ex Iena Paul Baccaglini a Palermo. Per non parlare delle miniere fantasma di Yonghong Li: il breve interregno cinese al Milan (e il denaro transitato in quei mesi) meriterebbe un capitolo a parte. Pure l’Inter, con le disavventure del gruppo Suning, sta ora pagando lo scotto dell’essere totalmente nelle mani di una famiglia/azienda/Stato. Metteteli voi nell’ordine che preferite.
Nell’ultimo lustro i fondi di investimento, soprattutto americani, e i capitali stranieri hanno cominciato a fluire nel nostro calcio. Dai big club, Milan (RedBird Capital, fresco di closing) e Roma (Friedkin Group), fino a decine di altre piazze, desiderose di rilancio, sparse tra Serie A, B e C. Proprio nella terza serie italiana si trovano alcune delle proprietà più particolari: Ancona Matelica con Tony Tiong, imprenditore malese a capo del Gruppo Rh con un patrimonio di 1,3 miliardi di dollari; Siena con Berkeley Capital CJSC, fondo d’investimenti riconducibile alle famiglie Gevorkyan e Gazaryan; Virtus Entella con Duferco Industrial S.A., gruppo imprenditoriale lussemburghese con business diversificati nei settori dell’energia, industriale e delle spedizioni.
Chi è rimasto a difendere l’onore delle grandi presidenze nostrane? Di quei personaggi che ballano sul filo tra movimenti milionari e commedia all’italiana? Sostanzialmente solo Aurelio DeLaurentis a Napoli, Claudio Lotito alla Lazio e il già citato Cairo al Torino. Dire che siano personaggi universalmente amati dalle rispettive piazze, però, è più di un eufemismo.
La famiglia Agnelli è sempre parte del sistema linfatico della Juventus, ma la società si è trasformata un una vera e propria holding. Per assurdo è proprio un “americano” ad avvicinarsi maggiormente a quell’immagine di presidente guascone e focoso molto anni ‘80. Parliamo, ovviamente, di Rocco Commisso, tycoon delle comunicazioni e proprietario della Fiorentina che in questi anni, con le sue sparate e il suo italiano da zio d’America, non ha certamente annoiato il popolo gigliato.
A Verona Maurizio Setti e a Sassuolo la famiglia Squinzi, pur con patrimoni di base molto differenti, condividono l’idea che l’equilibrio dei conti viene prima di qualsiasi ambizione sul campo. Per ora è bastato per veleggiare tranquilli a metà classifica, ma basta una campagna acquisti storta per ritrovarsi a guardare con sempre maggior interesse al paracadute che spetterebbe in caso di retrocessione. Nel suo piccolo anche l’Empoli è un progetto virtuoso, col presidente Fabrizio Corsi alla guida dal 1991.
Paradigmatica per fotografare la situazione attuale, però, è la gestione della famiglia Pozzo, unica proprietà sopravvissuta e mai retrocessa da quel 2002/03, alla guida dell’Udinese. Dopo alcuni exploit che li hanno portati anche in Europa, è risaputo come i bianconeri siano da anni il training camp del Watford. Gli Hornets, pur retrocessi dalla Premier nella scorsa primavera, sono l’esempio perfetto del perché oggi, in Inghilterra, si stia giocando sostanzialmente un altro sport.
Basti pensare come per i soli diritti tv il Watford abbia recentemente incassato 121,4 milioni di euro; sostanzialmente 37 in più rispetto all’Inter, che guida gli incassi italiani. Se poi guardiamo nel complesso i ricavi televisivi complessivi della massima serie italiana rispetto a quella inglese, la forbice è ancor più spaventosa. Si va dagli oltre 3 miliardi di euro per il torneo d’Oltremanica ai 939 milioni per i nostri club. Se vi stato chiedendo perché il calciomercato sia “dopato” dalle spese delle squadre inglesi, ora sapete il motivo.
Quindi? Cosa riserverà il prossimo futuro? Dobbiamo prepararci a dare l’addio definitivo ai patron per accogliere l’arrivo di multinazionali con interessi diversificati e gruppi finanziari dalla composizioni allargate? Probabilmente dipenderà dagli obiettivi. Per competere ai massimi livelli sarà necessario adattarsi alle regole del grande sport business globale, accettando l’ingresso di fondi e gruppi imprenditoriali magari più attenti al valore del brand che ai sogni immediati della tifoseria. Sperando però, al contempo, di non veder pian piano sbiadire la storia del club per esigenze di mercato. Manchester City docet. Se i grandi club italiani riusciranno a salire sul carro che conta, comunque, ne gioverà tutto il movimento.
Per gli innamorati del “calcio di una volta”, invece, toccherà ridimensionare le aspettative. Oppure scendere di qualche categoria. Tra Serie C e D ci sarà ancora spazio per figure alla Gigi Fresco, presidente-allenatore-anima della Virtus Verona, da quarant’anni a questa parte.
Se invece volete proprio sentirvi parte di qualcosa, fatevi un giro a Firenze, dalle parti del Centro Storico Lebowski. Una società sportiva che nasce come proprietà collettiva dei propri tifosi. Gioca in Promozione, fa attività giovanile, femminile e pure futsal. Oltre alla presenza costante per la comunità. Magari non vedrete girare i milioni, ma il panino con la salsiccia e una birra in compagnia non ve li leva nessuno.
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