Una delle novità proposte dalla nuova amministrazione di centro-sinistra, insediatasi a Verona a inizio estate, è stata quella di aver comunicato, attraverso l’assessore con delega alla transizione ecologica Tommaso Ferrari, lo stato di emergenza climatica e l’impegno della nostra città a contrastarla.

Un balzo in avanti importante rispetto già a quel minimale messaggio, dato dall’ex sindaco Federico Sboarina, nel 2019, sulla scalinata di Palazzo Barbieri e davanti a 7mila persone radunate in Piazza Bra, per l’allora primo sciopero globale del clima. Messaggio cui non è seguita nessuna buona prassi: anzi, la mozione di ridurre le emissioni di C02 e raggiungere l’azzeramento per il 2050 presentata dall’allora consigliere di minoranza Ferrari, fu bocciata seduta straordinaria del 17 settembre 2021 con 21 voti contrari e solo 9, l’intera opposizione, a favore.

In Italia, secondo la testata “La nuova ecologia”, a dicembre 2019 sono solo 80 i Comuni e sei le Regioni che hanno dichiarato l’emergenza. Non siamo mai stati un Paese distintosi per la lotta alla crisi climatica, grazie anche alla resistenza prodotta dai negazionisti. Il problema è culturale: mancano i divulgatori scientifici. Che spesso sono anche giornalisti, ma, come scrive Elisabetta Ambrosi nel suo recente e illuminante articolo sull’argomento: “La capacità divulgativa del giornalista appena scomparso (Piero Angela, ndr) era notevole, bellissimi i suoi programmi. Ma un Paese che, quanto a divulgazione scientifica, abbia praticamente solo un nome (e pochissimi altri) è un paese sfortunato. Un Paese dove niente può davvero funzionare, perché la scienza è alla base di tutto.” E proprio a lei, giornalista e firma de Il Fatto Quotidiano fin dagli esordi del quotidiano in edicola, ci siamo rivolti per un approfondimento sul tema.

Ambrosi, lei ha firmato un pezzo in cui delinea il panorama italiano: i politici sono in generale poco competenti in materia, i giornalisti ambientali sono pochissimi e ancora meno i divulgatori. La TV offre poco e non c’è nessuna pianificazione editoriale. Secondo lei la gente non potrebbe avere un ruolo attivo? Perché in Italia abbiamo questa cultura della popolazione passiva che riceve aiuti, sostegno e interventi?

Elisabetta Ambrosi

«Le persone hanno un ruolo attivo se sono informate. Se non conoscono la reale portata dei problemi, se non gli viene loro spiegato nulla, come possono attivarsi? Sicuramente c’è una parte piccola di cittadini in grado di formarsi autonomamente, ma si tratta di una piccola parte. Ricordiamo che l’Italia è il paese con i titoli di studio più bassi dell’Unione europea, ovvero con la percentuale di laureati tra le più piccole. In breve, c’è tantissima ignoranza, che fa sì che la gente non si mobiliti. Ecco perché, ripeto, i media, ma anche i social network, gli influencer, persino le pubblicità, hanno un ruolo fondamentale nell’informare i cittadini.»

È vero secondo lei che le donne siano in generale più sensibili su questi argomenti e spesso diventino paladine dell’ambientalismo, come riporta un recente studio?

«Sinceramente non direi questo, tra i movimenti giovanili si trovano ragazzi e ragazze in pari misura e così tra gli scienziati che si occupano di clima. Sicuramente le donne hanno un approccio leggermente diverso, questo sì, da quel che vedo. È più facile per noi attivare una serie di emozioni che ci consentono di mettersi in sintonia con la distruzione del pianeta, e quindi provare paura, disperazione, rabbia. Così come, al tempo stesso, volontà di riparare il danno, desiderio di prendersi cura della terra. Non sappiamo se il pianeta sarebbe meglio messo se al potere ci fossero per lo più donne. Sappiamo però che, con il potere saldamente in mano agli uomini, la terra sta morendo. Sarebbe dunque arrivato il momento di far sì che le decisioni su clima e ambiente fossero prese per la più dalle donne.»

Un’istituzione importante, che potrebbe dare un contributo notevole alla propulsione della cultura climatica, è la scuola. E a questo proposito un bell’esempio è rappresentato dai Teachers For Future. Ne ha mai incontrato qualcuno?

«Conosco i Teachers for Future e sono una bella realtà. Credo tuttavia che tutti, ma proprio tutti, gli insegnanti dovrebbero essere formati su crisi climatica, sostenibilità, economia circolare e che tutti i programmi tengano conto di questo aspetto. L’ambiente non deve essere una materia a parte, proprio come non deve essere un punto dei programmi politici separati. Al contrario, il tema del cambiamento climatico deve essere presente in ogni materia, perché come si può studiare oggi la geografia, la fisica, la biologia senza avere come sfondo la crisi climatica?»

Dovesse dare un consiglio ai giovani o a chi sta pensando di specializzarsi, quale sarebbe il percorso per diventare giornalista competente su scienza e clima?

«Per diventare giornalisti e scrivere non esiste una laurea specifica, né è per forza necessario fare una scuola di giornalismo. Quello che potrei consigliare è prendersi una laurea “forte” sui temi dell’ambiente, spendibile anche su altri fronti e poi vedere se con una forte specializzazione su quei temi sia universitaria sia, semplicemente, legata allo studio individuale, è possibile trovare giornali, riviste e media interessati a questi temi. C’è una scuola di specializzazione di divulgazione scientifica in Italia di eccellenza, la Sissa di Trieste, ma purtroppo i posti sono pochi e c’è obbligo di frequenza. In pratica è fruibile solo da chi non lavora. Mancano in effetti scuola di formazione scientifica per giornalisti, così come mancano giornalisti che facciano buona divulgazione scientifica perché purtroppo, proprio come in parlamento, anche tra i giornalisti c’è parecchia ignoranza oppure prevalgono lauree di tipo umanistico. Anche se ciò che conta in un giornalista è la capacità di intuire quali sono le notizie più gravi e importanti e lavorare su di esse: quelle climatiche sono senz’altro le più importanti.»

A lei non è mai venuto in mente che potrebbe fare un corso per formare nuove leve?

«Personalmente non sono così formata da poter portare avanti un intero corso, ma non escludo di trovare un gruppo di esperti e di fare qualcosa per la formazione dei giornalisti. Se l’Ordine ci aiutasse sarebbe meglio, invece di fatto è un inutile ente burocratico.»

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