Nell’afosa serata estiva che si prospetta, si cerca disperatamente una via di fuga per evitare di rimanere a casa, incollati (nel vero senso della parola) al divano fra sudore e zanzare, ipnotizzati davanti al solito filmetto dal sapore vagamente estivo proposto con costanza ormai da vent’anni e più in prima serata.

Al Teatro Romano, tutto esaurito da giorni, non è stato possibile recuperare un biglietto last minute, perciò la scelta finisce sull’evergreen lirico in Arena. Arriviamo un po’ “a pelo”, ma per fortuna non troviamo fila all’entrata; dati i costi ormai quasi proibitivi (per molti, certo, anche se non per tutti) dei biglietti, ci si “accontenta” (si fa per dire) di sempre familiare gradinata. Una gradinata è per sempre, d’altronde.

Dopo la scalata impervia, resa ancora più difficile e dura dal caldo e soprattutto dalle persone già da tempo accampate sui gradoni, raggiungiamo poco prima delle 20.45 l’agognata meta, l’ultimo girone in alto di un catino che tutto il mondo ci invidia. La fatica, infatti, è ripagata dallo splendido panorama che mi viene offerto: davanti a me l’immensa Arena, l’anfiteatro dei lustri romani, con il suo luccicare di luci e attese, mentre dietro di me il centro storico della città, che si appresta a vivere la serata, fra locali e turisti, con piazza Brà e il suo passeggio, il Liston popolato da tavolini pieni di spritz e pizze dal sapore non sempre autentico, le vetrine dei negozi già chiusi ma che perseverano nell’ammiccare, luccicanti…

Ai nostri piedi si apre uno scenario irresistibile per la curiosità di chiunque: una folla di gente, che va dai gradoni posti più in alto fino alla platea, dove si possono distinguere signore fasciate nei loro vestiti più eleganti uomini in camicia bianca, che inevitabilmente spiccano nel contrasto con il rosso predominante delle poltrone e della moquette. Ma quello che richiama la mia attenzione sono le persone sedute a pochi metri dal punto di osservazione: intere famiglie, coppie, anziani e bambini, gruppi di turisti attrezzati come per il migliore picnic di Ferragosto, danno vita ad una specie di festa in attesa dello spettacolo. Si sono portati di tutto da casa o dalle camere di albergo: gli immancabili panini, accompagnati da acqua, birra, bevande di ogni genere e un buon vinello del lago, frutta e verdura tagliata e preservata nelle vaschette di plastica, dolcetti e ogni genere di cibarie da sgranocchiare.

Per rendere la visione più comoda sugli antichi gradini non mancano teli da mare da stendere per delimitare la zona occupata, cuscini di ogni genere, anche quelli di plastica che accompagnano con sonore note ogni movimento e spostamento. C’è addirittura chi si è portato veri e propri cuscini, in modo da non essere colto alla sprovvista dall’arrivo di Morfeo, sempre in agguato. Accanto ad ogni accampamento si notano le scarpe di tutti i componenti della “tribù dei piedi scalzi”, appaiate e lasciate lì a riposare. Più in là c’è un bambino che gioca con un gioco elettronico: un modo per ammazzare il tempo, anche se forse un po’ troppo in contrasto con l’atmosfera che lo circonda.

Ma ecco che all’improvviso calano le luci, spariscono pomodorini, lattine e biscotti, tutti accantonati in attesa dell’intervallo; le candeline accese danno vita alla magia che si perpetua ancora una volta, un incanto che lascia a bocca aperta.

Mentre la zingara rubacuori canta tutto il suo amore sul palco, in “piccionaia” tutto tace… o almeno così dovrebbe essere: i vicini di posto, in effetti, danno vita a un continuo chiacchiericcio, intervallato da risatine e sbadigli. Mi chiedo, onestamente, cosa siano venuti a fare. Forse credono di trovarsi ancora nell’intimità di casa, magari davanti a un film o una trasmissione da commentare liberamente… e proprio mentre sto per formulare la fatidica domanda, una ragazza piuttosto seccata li redarguisce e li invita, severa ma giusta, al silenzio.

L’opera scorre, eccellentemente diretta e musicata; ma se vi si distoglie l’attenzione per un attimo sembra essere soltanto il sottofondo acustico del vero spettacolo, quello che si sta compiendo sugli spalti: i bambini iniziano ad addormentarsi, e non solo loro… un uomo, che aveva sbevazzato birra durante i primi due interi atti, ora sta amabilmente russando, interrotto di sovente dalla moglie, non poco stizzita, che gli assesta gomitate violente, degne di un giocatore di pallanuoto. L’intento di svegliarlo, però, non sortisce grandi effetti.

Due signore più in basso ridono sommessamente, un giovane annoiato continua a scattare foto con il cellulare, una ragazza più in là guarda il cielo con aria sognante, immersa nei propri pensieri.

Nel frattempo la suggestione creata dalla musica, dal ballo e dalla storia rapisce gli spettatori più attenti catapultandoli nella Siviglia di due secoli fa. Durante il terzo e ultimo intervallo, quando al grido di “gelati, bibite, cuscini” veniamo bruscamente riportato alla realtà, ci soffermiamo a guardare, complice la mia latitudine, il cambio di scena, non del tutto nascosto dai paraventi che invece ostruiscono completamente la vista a chi siede in platea molti metri più in basso.

Guardando gli operai, veloci nell’allestire la scenografia successiva, non si può non pensare a quante persone riescano a lavorare grazie a questa “industria della lirica” veronese. Comparse, steward e hostess, truccatrici e costumisti, musicisti, operai. Un vero e proprio esercito, formato da centinaia di persone. Un vero e proprio “petrolio” per la nostra città, da preservare e conservare a lungo.

L’opera volge al termine e alla fine dagli spalti scrosciano gli applausi di ammirazione e… di sollievo per la fine di questa “maratona lirica”. Ormai è notte a Verona e l’Arena si svuota velocemente e in silenzio. Appuntamento al prossimo spettacolo.

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