Resta nell’anima il momento in cui Liù scioglie il nodo con quel “Sì, principessa, ascoltami! /Tu che di gel sei cinta,/ da tanta fiamma vinta, /l’amerai anche tu!”. Così ieri sera Turandot è tornata in scena all’Arena di Verona per raccontare la sua storia. Una fiaba, sì, quella di Carlo Gozzi scritta in forma di commedia, ma anche una tragedia in cui i personaggi sono soggiogati dalla durezza di cuore della principessa cinese, quasi chini davanti a un destino fatto di terrore e di morte ineluttabile.

Una poetica Maria Teresa Leva, al debutto areniano, ha intessuto ieri sera la potente esecuzione musicale, con un’orchestra e un coro dell’ente lirico veronese di notevole splendore, per compattezza ed esperienza. Il direttore musicale del festival, Marco Armiliato, è infatti stato ringraziato ampiamente dal pubblico, con un entusiasmo travolgente durante i numerosi applausi di fine esibizione.

Ultimo titolo al debutto per il 99° festival areniano

Ultimo debutto per questa stagione operistica, arrivata all’edizione numero novantanove, sono innanzitutto le scenografie a condurre gli spettatori in quella “Cina al tempo delle favole” così sovrabbondante di vibrazioni. Colore e luccichii che stridono con la cupezza della vicenda, ma che nella visione di Franco Zeffirelli sono elementi di contrapposizione emotiva, quadri in cui le penombre (grazie anche alle luci di Paolo Mazzon) creano un’atmosfera rarefatta, in cui i gialli, i rossi, i verdi, l’oro, l’argento, detonano nei momenti narrativi più coinvolgenti.

Uno scorcio del Palazzo imperiale, con il coro accovacciato e rivolto verso il palcoscenico. L’allestimento maestoso fu ideato da Franco Zeffirelli, che si fece ispirare da un centro tavola di cristallo del Settecento in stile orientale.

Il regista fiorentino, scomparso nel giugno del 2019, aveva progettato le scene e la regia già nel 2010 appositamente per il palcoscenico areniano: fino al 2018 più volte Turandot è stata così rappresentata a Verona. E il capolavoro di Giacomo Puccini è il quarto titolo più amato e rappresentato in anfiteatro, a partire dal 1928 e ora stabilmente il quarto con ben 150 repliche.

Le sorprese piacevoli del cast

Ritmo incalzante tra i tre atti, a convincere in questo debutto sono soprattutto i ruoli secondari: oltre alla toccante Leva/Liù, capace di dare qualità emotiva alla dolce, remissiva, tenace, serva fedele dell’amato Calaf (Yusif Eyvazov) e del di lui padre Timur (Ferruccio Furlanetto), fanno vibrare per compattezza, mescolanza vocale ben assortita e presenza scenica il terzetto Gëzim Myshketa (Ping), Matteo Mezzaro (Pong), e Riccardo Rados (Pang), con quest’ultimo abile tessitore del racconto.

Piacevolissimo timbro, il tenore anche se nato nel 1992 fa ricordare voci più classiche. Maturo, dinamico, molto comunicativo sul palco, dopo aver debuttato lo scorso anno in Arena nell’Aida in forma scenica, diretta da Riccardo Muti, (e poi Peppe in Pagliacci di Leoncavallo, Ismaele in Nabucco di Verdi e come Principe di Persia sempre in Turandot) è un bene che sia tornato con un ruolo più ampio e vocalmente importante.

Il soprano Anna Netrebko, al centro, nei panni di Turandot.

Una Turandot che piace, ma servirebbe altro

Minore l’entusiasmo per la storica presenza di Ferruccio Furlanetto/Timur (quest’anno ricorrono i suoi quarant’anni di carriera areniana, dato che nel 1982 interpretò in anfiteatro Ramfis in Aida): esperienza da vendere, aderenza perfetta al ruolo del vecchio padre stanco di guerre, ma pure poco tenace nel canto, specialmente all’avvio dell’opera.

Per la coppia consolidata Anna Netrebko/Turandot e Yusif Eyvazov/Calaf il pubblico si è espresso nel migliore dei modi, senza rinunciare a exploit da concerto pop e un entusiasmo scaldato da gruppi di fan in mezzo agli spettatori. D’altronde, fin dal suono del rituale gong che precede per tre volte l’avvio dello spettacolo, centinaia di persone hanno canticchiato “Nessun dorma”, per scaldare i motori e creare una suspence poi esplosa all’inizio del terzo atto.

Necessario il bis dopo averlo tanto atteso, anche se è andata meglio la prima volta – ci sono pure gli scherzi dell’emozione. E sempre grazie alla magnifica orchestra che ha saputo seguire sapientemente il tenore azero (per chi ancora non sapesse, compagno non solo sul palco di Netrebko) nel superare piccole, comprensibili incertezze.

Puccini, l’ultimo lavoro senza (o con) finale

Perché l’ultima opera di Puccini (ricordiamo: il libretto è dei veronesi Giuseppe Adami e Renato Simoni) non è da prendere sotto gamba: l’incompiuta fu ultimata dopo la morte del compositore da Franco Alfano su invito di Arturo Toscanini, il quale alla prima rappresentazione alla Scala di Milano, nel 1926, ne fermò l’esecuzione fino al punto scritto dal Maestro. Le successive messe in scena furono complete del finale, ma Toscanini non diresse più Turandot.

Fatto sta che la scrittura musicale è intrisa dello studio di Claude Debussy, Richard Strauss, Igor Stravinsky, con un esotismo spiccato, e in alcuni tratti passa dal tradizionale verismo a una più raffinata accezione impressionista. E tale diversità, rispetto agli stilemi della lirica e del melodramma, non dà molte certezze a chi ne interpreta i personaggi.

Trionfanti Calaf/Eyvazov e Turandot/Netrebko nel finale che fa vincere l’amore. Ovvero il finale a cui Puccini non pensava e che ancora fa discutere i musicofili.

Cercasi (o no?) pubblico esigente

Continueranno le date di rappresentazione nella stagione 2022, esattamente in agosto nei giorni 7, 10, 13, 19, 26 agosto, ultimo appuntamento il 2 settembre. I costumi del Premio Oscar Emi Wada, scomparsa lo scorso novembre e che tanto ha fatto per l’immaginario areniano anche con Madama Butterfly sempre di Zeffirelli, valgono sempre la pena.

E si spera che tornino o arrivino voci indimenticabili, talenti degni di applausi accorati, attenti, esigenti. Esigentissimi, anche in una forma di spettacolo che deve continuare a essere amata da tanti.

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