Il Tour de France 2022 è stato incerto, vibrante, spettacolare, a tratti leggendario, con due protagonisti assoluti. Jonas Vingegaard, danese, già sul podio l’anno scorso, ha vinto la classifica generale e la maglia a pois di miglior scalatore. Tadej Pogacar, sloveno, già vincitore delle ultime due edizioni, è arrivato secondo, ma ha battagliato ogni giorno. Una caparbietà e una fantasia nella condotta di gara come mai si era visto fare nell’ultimo ventennio, tra cardiofrequenzimetri e radioline pronte a soffocare l’estro dei contendenti con tattiche attendiste.

Ad onor del vero, i grandi protagonisti della Grand Boucle 2022 sono tre, perché non si può tacere della immensa prestazione sportiva del belga Wout Van Aert, compagno di Vingegaard. Ha vinto la maglia verde della classifica a punti aggiudicandosi tappe da velocista puro. Il belga però è stato ben di più. Regista della propria squadra, la corazzata Jumbo Visma, esagerato attaccante di giornata anche quando tutto sembrava remare contro di lui, preziosa spalla del proprio capitano in tutti i momenti chiave della corsa, grimpeur eccezionale nella tappa con arrivo ad Hautacam. Insomma, è andato fortissimo sempre e su tutti i terreni.

Un dualismo che ha lasciato soltanto briciole…

La sfida quotidiana tra i due contendenti, palesemente più forti di tutti gli altri, ha finito per fagocitare tutte le attenzioni mediatiche. Le altre formazioni e gli altri corridori si sono dovuti accontentare delle briciole, incapaci di stare al passo dei due campioni su tutte le salite e anche a cronometro.
Spazio nullo, o quasi, per i francesi che nemmeno il 14 luglio sono riusciti a guadagnarsi un po’ di visibilità. Non c’è riuscito Romain Bardet, ottimo atleta a cui non si può rimproverare di essere un eterno piazzato. Le cause? una certa discontinuità, ma occorre dire che la gara è stata corsa ad oltre 42 km orari, record storico e media ancora più pazzesca se si pensa al caldo torrido che ha caratterizzato le settimane di corsa.

Non c’è riuscito Thibau Pinot, alla disperata ricerca quantomeno di un successo in una singola tappa, abbandonate da anni le velleità di classifica. Non c’è riuscito nemmeno l’ottimo David Gaudu, quarto in classifica finale, ma mai protagonista, sempre nell’ombra, sempre regolare nel cercare di non andare fuori giri.
Ci sarebbe riuscito Julian Alaphilippe, lasciato a casa dalla propria formazione, causa recupero non ottimale dalla caduta di inizio stagione? Forse avrebbe acceso la corsa in qualche tappa, ma anche per lui la tenzone quest’anno era fuori portata.

… e agli italiani nemmeno le briciole

Se ai francesi è andata piuttosto male (solo una tappa conquistata e il quarto posto della generale), agli italiani è andata davvero peggio. Non abbiamo un corridore che possa vincere un Tour de France, in questo momento non abbiamo nemmeno un piazzato. Contro i più forti nelle gare di un giorno, poi, paghiamo dazio, anche se qualche talento c’è. Logico dunque che i risultati non siano degni di nota, ma chiudere la Grand Boucle senza alcun successo per il terzo anno consecutivo, è da bocciatura per il movimento.

Ci ha provato, senza fortuna, un positivo Alberto Bettiol. Ci ha provato Filippo Ganna nelle cronometro, anche lui senza guizzi degni di nota. Su Ganna l’opinione pubblica ci puntava. Si pensava che potesse prendersi la maglia gialla all’inizio, ma è mancata anche un pò’ di fortuna. Nella crono finale, invece, le fatiche di un Tour folle per velocità di percorrenza hanno fiaccato il nostro alfiere, meno pronto degli altri uomini della generale a recuperare gli sforzi delle salite. Sarà per l’anno prossimo, forse.

Lo sconfitto Tadej Pogacar, favorito della vigilia, ma alla fine battuto da un brillantissimo Jonas Vingegaard

Spettacolo, ma non per tutti i gusti

I grandi giri non riescono mai ad accontentare tutti i gusti. Questo Tour ha presentato un percorso difficile. Adatto agli uomini completi e di gran fondo, ha generato spettacolo in molte salite anche ben prima delle ultime asperità di giornata. Sarebbe da promuovere a pieni voti, se non fosse per alcune riflessioni che possono essere avanzate a gara finita.

1) I velocisti, razza dimenticata. Le salite fanno più audience di una volata di gruppo. Se negli anni novanta al Tour c’erano almeno sette o otto tappe da velocisti, adesso gli sprint veri di gruppo sono massimo la metà. Percorsi mossi, trabocchetti nei finali di gara, le tappe oggi vengono disegnate così. Il tutto a discapito della nobile arte di fare a spallate a settanta all’ora dopo sei ore di corsa.

2) Anche il pavè ha portato il suo strascico di polemiche. E forse, chi contesta l’organizzazione, non ha tutti i torti. Bello spettacolo vedere cimentarsi sulle pietre polverose e scivolose gli uomini di classifica, non i possenti passistoni che si giocano la Parigi-Roubaix a primavera, ma gli scheletrici grimpeur con la faccia da bambino che si giocano la generale. Bello, ma anche un filo ingiusto. In ogni caso fuori da una tradizione ciclistica che ha sempre diviso strada e off road (mountain bike o ciclocross che fosse), ma che oggi tende a sovrapporre i due mondi. D’altra parte, viceversa, sarebbe impensabile vendere le gravel, bici da strada che ben si adattano agli sterrati.

3) Il Tour de France si è chiuso senza gravi incidenti, se non qualche fisiologica caduta e conseguente ritiro. Organizzazione, nei fatti, promossa a pieni voti su questo versante.
Eppure, ad ogni tappa corsa a velocità folle sin dalle prime battute, ci si accorge che l’equilibrio tra sicurezza, tutela dell’atleta e folle delirio di successo, in qualsiasi gara ciclistica moderna sia decisamente precario.

Questo Tour si è avvalso di meteo bellissimo, molto caldo, ma strade sempre asciutte, condizioni ottimali per correre in bici a minor rischio. Le velocità però sono sempre in aumento. La bagarre non c’è solo in alcuni specifici momenti di corsa, le difficoltà dei percorsi proposti portano gli atleti ad essere già stravolti, quindi meno lucidi, dopo una settimana di gara. Di questo passo la sicurezza sarà messa sempre più in secondo piano. Qualcosa occorre fare.

La media più alta della storia, evoluzione della specie o che altro?

Come già accennato, questo Tour è stato il più veloce della storia. E si è corso con temperature costantemente ben al di sopra dei 30 gradi, non certo la condizione ideale per rendere al top. Molti record di scalata delle principali salite dolomitiche e pirenaiche risalenti alle tristi stagioni del doping su larga scala, è vero, non sono stati battuti. Ciò però non basta per affermare che non si vada più veloce di un tempo, visto che i singoli e parziali record possono dipendere dallo sviluppo tattico della corsa.

Le velocità del gruppo sono aumentate, i rapporti spinti dai corridori (60×11 ad esempio) sono senza senso per un amatore ben allenato o per un professionista di venti anni fa. Questa evoluzione è sotto gli occhi di tutti e i dati complessivi sono lì a dimostrarlo.
Le prestazioni dei corridori sono in deciso miglioramento e superano di gran lunga quelle “sub iudice” degli anni Novanta e Duemila.

Lo sviluppo tecnologico dei mezzi non può giustificare da solo tale crescita, così come l’evoluzione dei metodi di preparazione, i regimi alimentari e quant’altro. Siamo evidentemente in presenza di fenomeni di evoluzione della specie che, oltre a confermare, se mai ce ne fosse stato bisogno, che Charles Darwin aveva ragione, mettono in evidenza come oggi siano sufficienti pochi anni di professionismo per eccellere.
Pogacar, Vingegaard, Van Aert e tanti altri giovani e giovanissimi ciclisti sono arrivati al vertice del ciclismo ben prima dei 25 anni, in netto contrasto rispetto a quanto la storia stessa del ciclismo ha scritto e affermato.

Che questa evoluzione abbia contorni del tutto etici è un presupposto a cui è doveroso affidarsi in assenza di altre prove. D’altra parte non si può non guardare con preoccupazione al doping genetico di cui si parla sommessamente da anni e che, da solo, potrebbe spiegare questa accresciuta capacità di sviluppare watt e recuperare così in fretta.

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