L’essenza dello sport, di tutti e per tutti
Quello che permette anche ad un disabile visivo di giocare a baseball. Quello in cui credono migliaia di italiani. Quello che può essere il tuo ultimo desiderio.
Quello che permette anche ad un disabile visivo di giocare a baseball. Quello in cui credono migliaia di italiani. Quello che può essere il tuo ultimo desiderio.
In campo regna il silenzio. Perfetto, lungo tutto il perimetro del diamante. Nessun rumore arriva dall’esterno, nessun fiato dalle tribune o dagli altri giocatori. L’assenza di suoni non è leggera, anzi, la percepisci come un qualcosa di solido, che avvolge corpo e pensieri. È in quel momento che una voce grida “gioco”, poi un colpo sordo, scarpe che calpestano veloci la terra rossa, sirene e mani che battono. Pensi che tutti i rumori si siano messi d’accordo per ronzarti attorno, mentre tu devi concentrati su quel lieve scampanellio che dovrebbe rotolare verso di te.
Lo so, difficile capirci qualcosa. D’altronde non è questo l’attacco che mi ero immaginato quando ho deciso di scrivere questo pezzo. Solo che, come lo racconti altrimenti il Beep Baseball? Come lo descrivi a parole, nero su bianco, uno sport dedicato a chi queste righe non potrà leggerle? Ti affidi alle sensazioni, ai suoni, gli unici punti di riferimento mentre cerchi di capire se la palla sta viaggiando verso di te.
Sabato scorso ho avuto l’opportunità di sperimentare il Beep Baseball, disciplina destinata a persone cieche o ipovedenti. Il Crazy Sambonifacese Baseball & Softball ha infatti ospitato una dimostrazione presso i suoi impianti sportivi di San Bonifacio. Una giornata organizzata in collaborazione con l’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti – sezione di Verona e del Baseball & Softball Club Rovigo.
Ragazze e ragazzi, uomini e donne con disabilità visive si sono ritrovati per un sabato mattina che, al sottoscritto, suscitava una gran curiosità. Lo sport è un formidabile motore di inclusione sociale, solo che, di solito, questi sono concetti sui quali ragioni assieme a chi, come te, possiede tutti e cinque i sensi. È bastata una buona benda sugli occhi, il buio attorno mentre il sole scotta sulle spalle, e la curiosità sbiadisce. Subentra qualcosa di più intimo, l’incertezza, la paura di sbagliare, di non essere in grado.
Eppure le avevo ascoltate con attenzione le spiegazioni di Loris Bucca, allenatore che da anni si impegna nella diffusione del Beep Baseball e nel coinvolgimento di persone cieche, ipovedenti e pure normodotate. Sì, perché in campo servono anche loro. Comunque, tu sei in battuta, la palla ha un cicalino al suo interno, la colpisci con la mazza, lei viaggia sul campo mentre tu corri verso la prima base, guidato da una sirena. La raggiungi e prosegui la falcata verso la seconda base, dove ti attende una compagna, vedente, che batte le mani sempre più forte per indicarti la vicinanza dell’obiettivo.
Il primo tentativo è una doccia di realtà. La palla fatico anche solo a colpirla con la mazza, figuriamoci mandarla nella giusta direzione. E poi la corsa, la cosa più semplice, pensavi. Invece senti la sirena in prima base, è ad una ventina di metri, ma è difficile anche solo infilare un passo verso di lei. È bastata una benda, e senza il braccio di Loris a sostenermi e guidarmi probabilmente sarei rimasto lì, spaesato, pochi passi dopo casa base.
È stata una delle esperienze più potenti e, allo stesso tempo, più stranianti mai provate su un campo da gioco. A prescindere dalla disciplina. È bastata una benda e anche il più scontato dei movimenti diventava irraggiungibile. Come se la stessa memoria muscolare si fosse disarticolata. Hai fatto il portiere per vent’anni, e adesso ti sembra un miracolo raccogliere una pallina sferragliante che arriva lenta verso la tua direzione. Dipendi dall’aiuto e dalle indicazioni delle persone attorno a te.
Avevo bisogno di una mattinata così. Non per affermare di aver compreso cosa significhi soffrire di disabilità visive, e nemmeno per poterci scrivere sopra un articolo strappacuore. Ma per riconciliarmi con l’essenza stessa dello sport. Che può e deve essere per tutti. Quello sport il cui valore non lo misuri in punti segnati, ma nei risultati che costruisce fuori dal campo. Lungo i mesi, gli anni, nelle comunità.
In Italia ci sono migliaia di uomini e donne che lo interpretano così, lo sport. Chi allena, chi organizza e accompagna, chi si forma costantemente e pure chi si prende solo la briga di mettere su una partita di calcetto per i ragazzi del quartiere. Un potenziale enorme, con fiumi di belle parole spese sopra, ma quando poi c’è da fare l’investimento strutturale lo sport torna improvvisamente ad essere “passatempo”. Qualcosa per occupare due ore di pomeriggio ai figli, se va bene. L’ultimo appiglio prima della deriva se ci si trova di fronte a condizioni di sofferenza o grave disagio.
Ecco come si arriva a certe immagini. Intendo quella di Lorenzo Pellegrini che manda un videomessaggio a Fabio Ridolfi per esaudire il suo ultimo desiderio prima della sedazione profonda che ne ha provocato la morte. Gli ultimi istanti di coscienza di un essere umano che chiedeva solo di andarsene con dignità, passati ad ascoltare un messaggio del capitano della Roma.
Anche qui la trovi l’essenza dello sport. Ma se pensi che nemmeno 48 ore prima avevi assistito ad un referendum finito nella farsa più totale, con gli stessi promotori fuggiti alla chetichella, come fai a non lasciarti andare allo sconforto? Come fai a restare zitto di fronte all’ennesimo fallimento di una politica incapace di riformare e riformarsi? Che si rifugia dietro “la parola agli italiani” per nascondere la propria debolezza? Una politica che, allo stesso tempo, teme i suoi stessi cittadini, evitando accuratamente di mettersi in ballo sui temi come il fine vita. Come fai a sperare nell’investimento strutturale?
È proprio lì, mentre il sangue ribolle, che l’immagine diventa ancora più potente. Perché tocca chiedersi cosa sarebbe successo se, solo un paio di settimane prima, la Roma fosse scesa in campo nella finale di Conference League (ma andava bene anche l’Empoli all’ultima di campionato, eh) con una t-shirt con scritto solamente “Fabio Ridolfi“. Nient’altro.
Sì, probabilmente mi sto facendo prendere dalla nostalgia. Dei tempi in cui il Corinthias di Sócrates srotolava striscioni e indossava magliette fastidiose per il regime. “Dia 15 vote“, il 15 andate a votare, come atto rivoluzionario. Voglia di uno sport meno plastificato, con i suoi campioni di carne e bestemmie chiuse tra i denti. Più umani, semplicemente, meno cyborg attenti a destreggiarsi tra un post preconfezionato una comparsata alla festa di uno sponsor.
Rischio di diventare stucchevole. Meglio fermarsi qui. Mi consolo al pensiero che ci sono persone come Loris, che lanciando una palla e porgendo un braccio rendono viva e concreta l’inclusione sociale. Torno a fissare quell’immagine. Di un uomo che, prima di andarsene, vorrebbe solo parlare con un calciatore. È passata una settimana, Fabio Ridolfi non è più tra noi. Sento un fiume scorrere forte, dentro.
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