L’Azadi è lo stadio più grande di Teheran. Il suo nome, in persiano, significa “libertà”. Ed è francamente paradossale come la nazionale che gioca lì le sue partite casalinghe, rischi di venire esclusa da un Mondiale proprio per aver negato alle donne l’accesso all’impianto.

Si tratta di un rischio reale? Oppure è solo facile propaganda della stampa sportiva italiana per tenere accese delle flebili speranze di ripescaggio azzurro post figuraccia siderale? Se dovessimo basarci sul numero di articoli pubblicati, mi butterei sulla seconda. Anche se sarebbe curioso vedere la FIFA escludere una nazionale, già qualificata sul campo, per una questione di diritti umani. Chiudendo gli occhi sul Qatar o, per tornare indietro, alle problematiche sociali inerenti ai mondiali in Sudafrica, Brasile o Russia.

Per quanto possa risultare interessante il dibattito, però, i riflettori improvvisamente puntati sul calcio in Iran sono l’occasione per dare uno sguardo oltre le vette dei monti Zagros. Verso una terra unica, dove pallone e storia sono spesso sulla stessa pagina del libro.

Benché si tratti di una civiltà con confini unificati da oltre 2.500 anni, in Iran poco meno del 60% dei quasi 80 milioni di abitanti sono persiani. Il resto sono curdi, azeri, luri, beluci, arabi, turkmeni, bandari e Qashqai (popolazione nomade che vive nel Sud-Ovest del paese). Con una tale mescolanza di etnie e culture, non è strano che sia proprio lo sport, oltre alla religione sciita, a fungere da collante sociale. Semmai è strana l’abbinata, calcio e wrestling, le due discipline più amate all’ombra del Takht-e-Tavous, il Trono dei Pavoni, nome originale del trono degli imperatori di Persia.

Lo stadio Azadi a Teheran

Una storia che gioca a calcio

La storia stessa del moderno Iran può essere raccontata attraverso il cammino del suo calcio. E della sua conflittualità con l’ortodossia religiosa più stretta. Fin dagli albori, al termine del primo conflitto mondiale, quando lo scià Reza il Grande (con robusta influenza inglese) intravede nel calcio uno dei treni per sfrecciare verso una nazione moderna. Alle forze armate viene ordinato di organizzare partite anche nelle regioni più sperdute.

Un vero e proprio shock per i mullah più intransigenti, che in vari villaggi ordinano anche la lapidazione dei calciatori. Si gioca in calzoncini corti e, così facendo, gli uomini contravvengono alle regole della Shari’a, che impone loro di coprire le gambe dall’ombelico alle ginocchia. Nulla di tutto ciò ha però impedito al regime di confiscare terreni alle moschee per convertirli in campi da calcio.

L’infatuazione del trono e, giocoforza, di ampie fasce della popolazione non poteva che produrre un movimento calcistico di assoluto livello per il panorama mediorientale e asiatico. Dopo la deposizione del primo ministro Mossadeq (con la longa manus degli USA e della Gran Bretagna), gli anni ‘60 sono quelli in cui lo scià inizia a imporre un’evoluzione sempre più frenetica verso il modello occidentale. Assorbendone pure vizi e peccati. Sono anche gli anni in cui prende il via un primo campionato nazionale e iniziano ad affermarsi i due club più famosi: il Taj, “corona”, e il Persepolis.

L’epoca d’oro del calcio iraniano

Nasce quindi il derby di Teheran, che si gioca proprio all’Azadi, uno dei più caldi al mondo. Nasce anche il vivaio di una nazionale che vince per tre edizioni consecutive la Coppa d’Asia. 1968, 1972 e 1976, un filotto tuttora ineguagliato, al quale si aggiunge la prima partecipazione ai mondiali, quelli del ‘78 in Argentina. Un momento d’oro per il calcio iraniano, pur non mancando gli episodi controversi. Come il match della nazionale contro Israele del 1967, col pubblico di Teheran intento a liberare in aria palloncini ricoperti di svastiche. La vittoria per 2 a 1 assume toni da mitologia popolare, col regime pronto a sfruttare l’ulteriore ondata di popolarità.

La nazionale iraniana al Mondiale 1978

Se i mondiali argentini sono il canto del cigno di una generazione calcistica forse irripetibile, anche il regime è prossimo alla deflagrazione. A seguito di un decennio in cui le repressioni sono cresciute proporzionalmente alle tensioni sociali, nel gennaio del 1979 lo scià fugge all’estero, Khomeini torna dall’esilio francese e a fine marzo nasce la Repubblica Islamica dell’Iran. Per un decennio il pallone sparisce dai radar.

Il calcio, molto amato anche dal pubblico femminile, viene bollato come attività degradante. Al sesso femminile viene vietato l’ingresso agli stadi, troppo testosterone. Anche i nomi dei club principali cambiano. Il Taj diventa l’attuale Esteghlal, “indipendenza”, e pure il Persepolis diviene per un breve periodo il Piroozi, “vittoria”, ma su quest’ultima si fa poi retromarcia.

Un movimento “congelato”

Immaginate per un attimo di congelare il movimento calcistico italiano per dieci anni buoni. Magari la guerra non la facciamo, ma sotto il coperchio la pentola ribolle. Lo stesso accade in Iran, tanto che Khomeini nel 1987 concede alle donne di guardare le partite in tv. Il regime, islamico stavolta, prova anche ad infiltrarsi negli stadi, con cartelloni contro USA e Israele o slogan incitanti ad Allah. Manovre di scarso successo.

Il problema è che una stasi così prolungata non può che bloccare lo sviluppo di nuovi protagonisti di alto livello. Col risultato che, per un coetaneo del sottoscritto, la prima apparizione dell’Iran sulla mappa del calcio porta il nome di Ali Daei. Shahriar“il Grande Re”, leggendario centravanti di etnia azera che trascina la nazionale a Francia ‘98 e lascia il segno anche in Germania. Il miglior giocatore iraniano di sempre trova casa all’Arminia Bielefeld, poi Bayern Monaco ed Herta Berlino. Con quest’ultima maglia segna pure in Champions, a San Siro contro il Milan, in una serata di fine settembre 1999.

Ali Daei

L’approdo della nazionale ai mondiali francesi è un momento di svolta sociale in Iran. L’episodio clou avviene nel novembre del ‘97, quando Daei e compagni superano l’Australia nello spareggio qualificazione, scatenando scene di giubilo e masse festanti in quasi tutte le città del paese. Si balla, si beve, si suona musica rock occidentale. Le donne, che sembravano attendere un pretesto per far saltare il coperchio della suddetta pentola, si uniscono ai festeggiamenti. Scendono in piazza come non accadeva da anni. Il regime islamico, che nel frattempo ha eletto il riformista Khatami, prova a pianificare e gestire i festeggiamenti, ma l’euforia è troppa.

Migliaia di tifose si presentano ai cancelli dell’Azadi per festeggiare i giocatori, e riescono pure ad entrare nonostante i divieti. La discesa in strada delle donne iraniane è un moto spontaneo, che magari centra pure poco col calcio, «ma è parte di una più ampia battaglia per il diritto alla presenza, in una società in cui il diritto alla cittadinanza e alla visibilità sono fortemente condizionati dal ceto sociale e dal genere», come ha spiegato un paio di anni fa la ricercatrice Rassa Ghaffari in un’intervista a l’Ultimo Uomo.

Le aspettative di un popolo

Il fatto è che il calcio è tornato a rappresentare le aspirazioni e le aspettative del popolo iraniano. Durante tutto il mondiale francese il regime è terrorizzato dalla possibilità di veder apparire in diretta televisiva, sugli spalti, messaggi sovversivi da parte degli oppositori in esilio. Per questo le tv di stato non riprendono le folle allo stadio, sovrapponendo ad esse il tragicomico fotomontaggio di un pubblico avvolto in cappotti invernali. Sotto di loro calciatori che sudano sotto il sole estivo.

Altri tentativi di arginare la passione e la fuga verso l’ideale sportivo occidentale si susseguono negli anni. Ma lo sport, anche in questo caso, conferma di parlare lingue differenti, universali. E di poter ancora viaggiare a velocità doppia rispetto a idee retrograde e tabù secolari. Il pallone, oggi, in Iran non ha mai goduto di così tanta popolarità, esporta calciatori professionisti in tutto il globo e la nazionale ha pure fatto delle dignitosissime figure agli ultimi campionati del mondo.

All’ombra di Khomeini, il Persepolis festeggia l’ultimo campionato vinto

Resterebbe la questione femminile. Quella che ha fatto nascere questo pezzo. Donne e ragazze che continuano a chiedere di entrare allo stadio e che, nel 2005, si siedono sul prato di fronte ai cancelli dell’impianto indossando un velo bianco, con una frase: sahme man, nime az Azadi! – “la quota per le donne: metà dello stadio Azadi”. Come Sahar Khodayari, attivista 29enne che si è tolta la vita dandosi fuoco davanti a un tribunale di Teheran. Protestava contro il divieto per le donne di entrare negli stadi.

Gli ultimi anni

Nell’ottobre 2018 circa 300 donne hanno potuto assistere all’amichevole tra Iran e Bolivia, quasi tutte mogli o parenti dei calciatori e sotto stretto controllo delle autorità. Un anno dopo, il match di qualificazione ai prossimi mondiali tra Iran e Cambogia è stata la prima partita, dopo quarant’anni, in cui 3.500 posti dell’Azadi sono stati riservati al pubblico femminile. Poi, sono tornati i divieti.

Il 2022 è arrivato, con la sua primavera è anche l’anno 1401 del calendario persiano e il quarantatreesimo dalla rivoluzione. Le donne sono sempre lì. In attesa che trovino concretezza le parole del poeta della Persia medioevale Saadi Shirazi, che sono affisse anche nella sede delle Nazioni Unite: “I figli di Adamo sono i membri l’uno dell’altro, che sono nella loro creazione dalla stessa essenza”.

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