“Non è per i 30 pesos, è per i 30 anni”. Questa la frase che scatenò nel 2019 una ribellione popolare in Cile di cui si parla ancora troppo poco.

Fu la goccia che fece traboccare il vaso, era il 18 ottobre 2019, e non fu certo l’aumento irrisorio del costo del biglietto del bus, ma la rabbia di chi era passato dalla dittatura al neoliberismo selvaggio.

I ragazzi allora saltarono i tornelli e continuano a farlo, “coraggiosi, impavidi, sono un esempio di grande bellezza”, aveva detto a ottobre dell’anno scorso il regista Manuele Franceschini alla Festa di Roma parlando del suo documentario No tenemos miedo, realizzato con Lucky Red e con il patrocinio di Amnesty International.

Il film avrà una distribuzione itinerante per serate-evento: ha cominciato al Cinema Troisi di Roma. Ha il sostegno di Amnesty Italia e, tra le testimonianze, quella di Leonardo Alejandro Villar Aguilar, fotografo che racconta “La Primera Linea”.

La Primera Linea è la formazione spontanea dei giovani di tutte le estrazioni che, armati di parabolica e fionda come Davide contro Golia, guidarono in Cile le proteste sociali mettendosi a grande rischio per le reazioni violente dei carabineros. Davanti “a questa gioventù impavida non si può che restare affascinati”, spiega il regista Franceschini, rientrato in Italia dopo 40 anni in Sud America, di cui dodici in Cile.

“È difficile essere ragazzi lì, riparati alla meglio, pronti al sacrificio. Mentre giravo e li raccontavo ero davvero scosso”, dichiara il regista, che ha documentato con coraggio la
protesta dei cittadini del Cile contro il governo di Piñera, esplosa proprio nell’ottobre 2019 a seguito dell’aumento del prezzo del trasporto pubblico.

In No tenemos miedo con la sua piccola troupe ha avuto il coraggio di infiltrarsi tra i protestanti filmando la guerriglia urbana. Tutto questo mentre il popolo affollava Plaza Italia, la zona zero delle manifestazioni cilene, ribattezzata poi Plaza de la Dignidad, con una repressione della polizia cilena molto brutale.

Le proteste in Cile nel 2019 contro le ingiustizie sociali. Sono partite da un semplice aumento dei biglietti del bus

Le ingiustizie sociali e i Chicago Boys

Quanto andai in Cile, nell’agosto del 2003, con mia moglie per l’adozione di nostra figlia Stefani, Santiago era teatro di una protesta giovanile estesa. La polizia rispondeva in modo pesante. Nel parlai tempo dopo con il senatore José Antonio Viera-Gallo, classe 1943, di sinistra, sottosegretario alla Giustizia nel governo di Allende e, anni dopo, grande consigliere della presidenta Michelle Bachelet, anche lei di sinistra.

Il senatore Viera-Gallo spiegò che il governo non poteva spingersi oltre, sul piano della giustizia sociale ed economica, pena il rischio di trovarsi ancora i militari al potere. La sua giustificazione mi convinse solo a metà. C’era modo di cambiare in meglio la società cilena, senza fare gli errori del governo Allende: bastava non intaccare gli interessi americani; e rassicurare la borghesia (grande e media) cilena che le riforme sarebbero state un vantaggio per tutti.

Il Cile paga il prezzo delle scelte economiche liberiste dei Chicago Boys, guidati da Milton Friedman: gli economisti della deregolamentazione selvaggia, del precariato diffuso, del lasciare al mercato di regolarsi e di togliere quanto più Stato possibile dalla vita sociale ed economica. I risultati li vediamo: la povertà, le ingiustizie, i soprusi – in Cile come in Italia come nel resto del mondo – sono aumentati.

La filosofia economica egoista – di un capitalismo sfrenato e senza etica – dei Chicago Boys è stata esportata dagli Stati Uniti al Cile, luogo dove hanno sperimentato sulla pelle della gente le loro teorie; con riverberi in tutto il mondo. C’è chi considera il Cile il posto ideale per fare impresa; e chi sottolinea la disoccupazione, la mancanza di un servizio sanitario pubblica, l’assenza di una scuola statale e quindi la catena di privilegi solo per la borghesia cilena.

Anche in Italia abbiamo avuto in passato chi esaltava la flessibilità (che fa rima con precarietà), la fine dei lacci e lacciuoli in ambito economico, la riduzione della sanità pubblica a favore del libero mercato. Le conseguenze di quella sciagurata impostazione – speculare a un’altrettanto sciagurata visione statalista estrema – le tocchiamo ora con mano. Un Chicago Boy italiano è morto pochi giorni fa: Antonio Martino, ministro nei governi Berlusconi.

No tenemos miedo (ovvero: Non abbiamo paura) è un film che – come la storia contemporanea del Cile ci insegna – vale anche per l’Italia. Il destino di dittatura del Cile ha segnato la storia italiana di fine Anni Settanta, con il Partito Comunista che ha colto gli errori di Allende e ha puntato al “compromesso storico”.

L’influenza nefasta della politica neoliberista dei Chicago Boys ha lambito anche le coste italiane e il nostro tessuto economico. Sono aumentate le ingiustizie e abbiamo sprecato quanto di importante, sul piano dell’etica economica, la storia del nostro Paese aveva messo assieme dopo il boom economico degli Anni Sessanta.

L’auspicio è che – come la lezione giunta in Italia da chi ha colto gli errori di Allende e gli orrori di Pinochet – ci sia qualcuno che interpreta il rinnovamento, la speranza, la lotta decisa e vincente contro le ingiustizie che viene dal Cile. E che sono raccontate nel docufilm No tenemos miedo. Perché non bisogna aver paura nel denunciare l’ingiustizia.

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Salvador Allende nei giorni del Golpe del sanguinario Pinochet, generale sostenuto dagli Stati Uniti

Il cambiamento in Cile e i media

È cominciato proprio in questi giorni in Cile il governo di Gabriel Boric, il più giovane presidente della storia del Cile. Ha solo 36 anni e rappresenta quella sinistra emersa con il movimento studentesco del 2011; e poi con le proteste sociali contro le profonde disuguaglianze scoppiate nell’ottobre del 2019. In questi primi mesi del suo mandato ci sarà la convivenza con l’Assemblea Costituente, che sta lavorando intensamente per presentare una proposta di Costituzione.

Almeno fino a questo momento, la nuova carta cambierebbe notevolmente l’impianto istituzionale cileno che risale alla dittatura del generale Augusto Pinochet, il sanguinario militare fascista che – sostenuto dagli Stati Uniti – prese il potere con il Golpe contro il governo di Salvador Allende, l’11 settembre del 1973.

Come sottolinea l’Ispi (l’Istituto per gli studi di politica internazionale), “in Cile il ruolo redistributivo delle politiche pubbliche è molto limitato: il governo potrebbe ridurre la disuguaglianza nel paese con una opportuna tassazione sui redditi e sui capitali, con trasferimenti monetari agli individui e alle famiglie più bisognose e con una spesa pubblica di tipo progressivo, cioè destinata alle classi più povere”.

“La rabbia di molti cileni è esplosa per l’aumento del biglietto della metropolitana”, fa notare l’Ispi, “ma da tempo era forte la domanda per una migliore istruzione pubblica a tutti i livelli, per migliori servizi sanitari pubblici, in generale per un miglior welfare state, adeguato a un paese a reddito medio alto”.

“Quando è iniziato il movimento sociale, il fulcro della copertura televisiva era, in generale, la copertura degli eventi violenti che si sono verificati intorno alle manifestazioni, che sono stati molto massicci e si sono verificati ogni giorno. Ciò ha generato molto fastidio tra gli spettatori”, spiega la giornalista e accademica cilena Francisca Skoknic alla LatAm Journalism Review (LJR) del Knight Center for Journalism in the Americas. “La gente ha finito per odiare i giornalisti alle marce e, in molti casi, per attaccarli”.

“I media tradizionali cileni, come TVN, Mega, quotidiano La Tercera, tra gli altri, hanno enfatizzato la copertura degli eccessi con lunghe e ininterrotte trasmissioni di saccheggi, barricate, incendi in diverse parti della città, principalmente nel centro di Santiago”, osserva Claudia Lagos, professoressa di giornalismo all’Università del Cile e presidente della Rete dei giornalisti del Cile.

Questo comportamento della stampa non stupisce. Accade in tutti i luoghi del mondo. Come ci ricorda lo studioso Denis McQuail, i media tendono a legittimare e a proporre i valori dominanti in un certo contesto sociale. L’ho sperimentato non solo negli studi che ho fatto, con l’associazione ProsMedia, sul tema “media e immigrazione”. Ma anche nelle narrazioni del caso giudiziario di Milena Sutter e Lorenzo Bozano: i giornali, nel 1971 come oggi, sono allineati con le verità ufficiali espresse dalla magistratura. Non vado al di là del racconto di comodo. Non si interrogano, tranne rare eccezioni.

Sul ruolo della stampa nelle proteste in Cile si sono interrogati gli studiosi di quel Paese. Secondo la giornalista cilena Paula Molina, le proteste sociali hanno ricordato ai media l’importanza di lavorare sul campo, di schierare squadre di stampa con capacità sufficienti per lavorare in un “contesto così instabile e dinamico”, come quello delle manifestazioni. E di identificare più rapidamente gli abusi della polizia contro i cittadini durante le proteste.

Com’è accaduto con il Golpe del 1973, il Cile è ancora oggi una “frontiera avanzata” dei malesseri sociali, della voglia di cambiamento, degli abusi di potere. Come in Ucraina, come in Medio Oriente, come in tutte le zone di conflitto, a pagare il prezzo sono sempre le persone comuni: tutti noi. Le élite di potere – da qualunque parte – si comportano come i Chicago Boys: sperimentano su di noi i loro interessi.

Va poi sottolineato come il Cile ci ricordi, con la sua storia, anche il ruolo dei media nella narrazione di una cultura e di una società. No tenemos miedo è, a questo proposito, un docufilm che interpreta quella frontiera avanzata cilena, con le sue contraddizioni e la sua voglia di verità e di giustizia. Lo fa con coraggio. Con voglia di verità. Come fanno il giornalismo e il cinema di qualità.