Sono partita all’alba, l’1 marzo. San Pietroburgo mi chiedeva di restare, perentoria con i suoi palazzi barocchi, sfavillanti lungo la Neva. Ma la mia coscienza puntava già verso casa.

Mentre l’autobus procedeva verso il confine, i miei muscoli si irrigidivano, a ogni posto di blocco dell’esercito russo sempre di più: quattro in totale, più due checkpoint, uno russo e uno finlandese. «I tre passaporti ucraini prima», ha comandato una delle guardie russe di frontiera: io, commossa, aspettavo il mio turno tra gli altri.

Dopo qualche timbro qui e là sul passaporto, ecco il primo cartello scritto in finlandese: Valimaa Border Crossing Point. Ce l’ho fatta, sono finalmente in Europa. E c’è il sole a scaldarmi le ossa. Di là del confine, non lo si vedeva da giorni.

Comincio dalla fine per raccontarvi l’inizio; anzi, i mille inizi collezionati in questo unico mese che mi è stato concesso in terra russa. Dovevano essere cinque: un anno fa ho vinto una borsa di studio presso l’Università degli Studi di Verona per studiare un semestre in un paese non europeo. I bandi ti chiedono sempre una prima scelta, la Russia, appunto, e una seconda, che per me era la Corea, ovviamente del Sud. La lettera di invito presso la Saint Petersburg State University è arrivata a ottobre: ero stata accettata presso il dipartimento di Relazioni internazionali.

E Russia sia

Arianna Francesca Brasca

Per me quel tempo doveva essere un esercizio filosofico, una lezione sul mondo, un’apertura alla cittadinanza dell’Altro. Con il professor Davide Poggi, docente di filosofia teoretica, intanto, avevo iniziato la mia ricerca di tesi a Verona: diplomazia digitale e soft power come strategia di peace-building.

La Russia, come caso di studio, era un tassello perfetto di quel progetto. Studiare i conflitti internazionali, le strategie diplomatiche, la storia delle relazioni Russia-occidente in quel Paese voleva dire aprirsi a come le storie vengono raccontate dagli altri, a come la narrativa pubblica sia specifica di ogni particolare contesto storico-geografico.

La mia curiosità intellettuale aveva trovato pane per i propri denti. Il mio senso di responsabilità sociale poteva finalmente confrontarsi con la complessità dell’umano e uscirne rinvigorito e appassionato più che mai. Avevo indagato a sufficienza la mia storia personale per lasciare spazio a quelle degli altri,

avevo fatto mia la consapevolezza che lavorare nel mondo della comunicazione voleva dire diventare esperti nella condivisione di significati: tu, come lo vedi il mondo?

Lo shock dell’adattarsi a vivere in una comune sovietica, a un clima che alcune mattine poteva sfiorare i -15°, a una prossemica diversa tra le persone, era come un rito di iniziazione. Il mio corpo doveva accompagnarmi in questa progressiva immersione in una società altra, secondo i più ligi principi dell’etnografia. Ho conosciuto ragazzi/e russi/e incredibili: curiosi, appassionati, liberali. Ci siamo promessi, pur senza conoscerci, che avremmo viaggiato insieme, nel loro Paese e nel mio, per contaminarci, per insegnarci il meglio e il peggio delle nostre società, per immaginare, con tutta la creatività che la giovinezza porta con sé, prospettive diverse, da costruire insieme.

Poi tutto è precipitato, in una sola notte

La mattina dell’attacco la Piazza dell’Ermitage e le vie centrali di San Pietroburgo erano gremite di mezzi corazzati e soldati. La gente, quella sera, sarebbe scesa in strada a protestare: una protesta in contemporanea tra Mosca e San Pietroburgo, la più grande mobilitazione dai tempi dell’arresto dell’oppositore politico Aleskej Naval’nyj. Tra quelle persone, anche i miei amici. Quella notte ci furono duemila arresti. Era solo l’inizio: da quel giorno, ogni giorno, Mosca e San Pietroburgo sarebbero diventate le ammiraglie del dissenso, dal motto “Нет войне”, “No alla guerra!”.

La politica in Russia non è fatta da gente comune, non ricerca consenso: Putin e l’oligarchia non hanno bisogno di questo, il potere che insegue nient’altro che se stesso non si legittima attraverso il contratto sociale. Il governo non si preoccupa di rappresentare i bisogni e le aspirazioni del popolo, non offre strumenti cognitivi per pensare il proprio futuro, come individuo e come nazione, non insegna a immaginare che cosa voglia dire essere russi e confrontarsi con il mondo. C’è solo spazio per pensare la politica del più forte, la guerra, la chiamata alle armi, che terrorizza, ora, un’intera generazione.

Per me, l’essere nata e cresciuta in un un Paese che ripudia la guerra e che ha trasformato, per tentativi ed errori, il linguaggio della mobilitazione nel linguaggio della solidarietà, voleva dire non avere, a mia volta, gli strumenti cognitivi per immaginare la guerra, per capirne la minaccia, per viverne la paura.

Ho accolto il comunicato della Farnesina a tutti gli italiani di lasciare il paese quanto prima. Ho preso un biglietto per attraversare il confine finlandese via terra, su un autobus, una delle poche alternative rimaste dopo la chiusura degli spazi aerei da e per l’Europa.

Ma non smetterò di studiare, non abbandonerò quel progetto, quell’entusiasmo. La mia tesi parlerà anche di questo vissuto, che mi ha insegnato come non ci sia modo migliore di fare questo mestiere, quello del giornalista, che non sia vicino alle cose e alle persone che le fanno succedere.

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