«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi». Una delle frasi più citate nella storia del cinema della fantascienza, e spesso in modo sbagliato, dà inizio a quella che è la scena più iconica di Blade Runner e, per la proprietà transitiva, della fantascienza tutta. Eppure quella frase non è nel romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick, da cui notoriamente il capolavoro di Ridley Scott fu tratto.

Il che è quasi poetico se pensiamo al rapporto tra Dick e il cinema: uno dei più grandi scrittori di fantascienza del Ventesimo Secolo, autore estremamente prolifico e lungimirante, eppure sfortunatissimo e poverissimo, Dick raggiunse finalmente il tanto agognato successo proprio con Blade Runner, che fu un flop al botteghino ma che, per via della vendita dei diritti, gli riempì le tasche. E che ti combina il Philip subito dopo? Muore.

Muore il 2 marzo 1982, a 53 anni, sette mesi prima dell’uscita di Blade Runner nelle sale. Fa giusto in tempo a seguirne un po’ la lavorazione, vede i bozzetti di Syd Mead e i set, incontra Scott e si imbeve di questa tarda gloria. E poi se ne va.

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Rutger Hauder e Harrison Ford in Blade Runner (1982)

Un flop di enorme successo

Beffa finale: Blade Runner va male, poi diventa un cult, finisce per essere considerato uno dei massimi capolavori della fantascienza, ma tutti citano sempre e solo Roy Batty e il suo leggendario monologo. Quelle frasi furono rielaborate, a partire dalla sceneggiatura, da Rutger Hauer stesso, che aggiunse la parte sulle «lacrime nella pioggia» (hai detto niente) di suo pugno.

Curioso che, da questo punto in poi, alcuni dei più celebri adattamenti di Dick al cinema siano stati tratti da suoi racconti e romanzi ampiamente rielaborati e traditi. Atto di forza, Minority Report e Paycheck (diretto da John Woo! Vi viene in mente qualcosa di più distante dall’immaginario dickiano?) sono lavori che prendono spunto dal testo originario per ampliarlo, cambiarlo, adattarlo a un filone preciso o allo stile di un regista o di una star (Arnold Schwarzenegger, per dirne una).

Arnold Schwarzenegger in Atto di forza (1990)

DNA dickiano

Sottotraccia permangono i temi di Dick, perché sono davvero troppo forti per essere zittiti da una messa in scena roboante. L’identità, la memoria, il totalitarismo, lo scarto tra percezione e realtà sono tutte cose che i film già citati usano come scuse per costruire azione e suspense, più che sconvolgere e inquietare come faceva Dick. Ma funzionano comunque.

Il punto però è che, forse, Dick è stato più influente sulla settima arte attraverso quei film che, pur non essendo ufficialmente tratti da sue opere, ne conservano il DNA. Pensiamo a Matrix, che deve tanto a Ubik quanto a John Woo e agli anime giapponesi. Pensiamo a Ghost in the Shell, l’anime giapponese che aveva ispirato Matrix (sicuramente anche debitore del Cyberpunk, a sua volta debitore di Dick). Ma pensiamo anche a Dark City di Alex Proyas, con i suoi alieni che modificano la realtà ogni notte, Se mi lasci ti cancello, The Truman Show. Videodrome ed eXistenZ di David Cronenberg, L’esercito delle 12 scimmie e mezza filmografia di Christopher Nolan (e un po’ anche l’altra mezza). Nolan che, per altro, considera Blade Runner uno dei suoi film preferiti e un’enorme influenza sulla sua opera.

Pillola blu o pillola rossa? Matrix (1999)

Atto di forza

Ogni volta che il cinema di fantascienza guarda alle distopie, alle dittature basate sulla tecnologia, ai mondi virtuali e alternativi e ai paradossi che da essi derivano, alla paranoia da persecuzione e al sottilissimo confine tra realtà oggettiva e soggettiva, tra verità e illusione, lo spettro di Philip K. Dick aleggia potente e ammanta tutto delle sue visioni anticipatrici e lungimiranti.

Ed era forse inevitabile che ci fosse questo strappo tra i film effettivamente tratti dalle sue storie e quelli solamente ispirati da esse. Nel primo caso si guarda alla storia, al concept iniziale, si compra una proprietà intellettuale e la si deve usare. Nel secondo, invece, parliamo di autori che hanno letto Dick e sono rimasti affascinati dai suoi temi, intendendo riproporli al pubblico contemporaneo. La frattura era molto più evidente tra gli anni ’80 e i primi 2000, quando la fantascienza era ancora un genere mainstream nella sua forma pura. Pensiamo ad Atto di forza: un film che, se non ci fosse scritto che è tratto da un racconto di Dick, sarebbe difficile da capire. Certo, l’inganno dei sensi, la confusione tra realtà e simulazione sono perfettamente intatti nell’action di Paul Verhoeven, ma per il resto è puro Schwarzenegger show, tra sparatorie, inseguimenti e ultraviolenza. La paranoia dickiana aggiunge quel livello extra di godimento che fa del film di Verhoeven uno dei migliori action/sci-fi di sempre, ma siamo lontani dall’immaginario cerebrale di Dick.

Keanu Reeves dalle allieve al maestro in A Scanner Darkly (2006)

Ritorno alle origini

Lo zenith (o nadir, a seconda dei punti di vista) arriva però con il già citato Paycheck, che usa un pretesto tratto da Dick per confezionare quello che in gergo hollywoodiano viene definito un “veicolo” per la star Ben Affleck, affidato oltretutto a un John Woo mai così piegato alle logiche del business. È il 2003, e le cose stanno per cambiare: nel 2006 esce A Scanner Darkly di Richard Linklater, forse l’opera più vicina alla sensibilità dell’autore. Un cartoon lisergico, realizzato con la tecnica del rotoscope, che racconta di un futuro distopico in cui una terribile droga rende schiavi e porta rapidamente alla morte. Nel 2011 è la volta de I guardiani del destino, che rimette al centro le visioni dickiane in maniera più cristallina.

Negli anni seguenti la fantascienza pura non è più oggetto di blockbuster come un tempo, diventa materiale per film a budget medio e, dunque, basati su grandi concetti. Dick è un pozzo senza fondo di idee perfette per questo, specialmente in TV: Electric Dreams, una serie antologica basata sui suoi racconti, e L’uomo nell’alto castello, tratta dall’omonimo romanzo (da noi noto anche come La svastica sul sole), non tentano di riadattare l’immaginario di Dick ad altri contesti, quanto di fare emergere le tematiche dell’autore per mezzo di una narrazione moderna e aggiornata, sicuramente, ma non fuorviante. L’uomo nell’alto castello amplia e amplifica il testo originario, ma lo fa basandosi anche su appunti lasciati dallo scrittore per quella che avrebbe dovuto essere una saga in più romanzi.

Ryan Gosling in Blade Runner 2049 (2017)

Il cerchio si chiude

Il cerchio, in un certo senso, si chiude con Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve, uno dei pochi autori rimasti a tentare di realizzare grandi visioni mainstream legate alla fantascienza classica. Il suo sequel di Blade Runner, che rimette al centro le domande esistenziali di Dick su cosa ci renda umani e sulle evoluzioni dell’intelligenza artificiale, è un flop al botteghino, come l’originale. Resta però un’opera affascinante, che non rifugge dai temi più profondi e ben poco commerciali dell’opera di uno scrittore che, proprio per questa sua continua ricerca ossessiva sulle nostre paure e angosce, non incontrò mai il successo meritato. Sono temi che ci fanno paura ancora oggi, ed è per questo che chi li ha sfruttati al cinema ha spesso indorato la pillola. Una pillola blu per mandare giù la pillola rossa.

Philip K. Dick sarà oggetto di una giornata di studi, “Svegliatevi, dormienti. I mondi e le visioni di Philip K. Dick a quarant’anni dalla scomparsa”, organizzata da EXTRA sci-fi festival Verona in collaborazione con l’Università di Verona, che si terrà venerdì 11 marzo al Polo Santa Marta, in via Cantarane 24, dalle 10 alle 17. Per partecipare scrivere a info@extrascififestival.it, indicando nome, cognome, recapito telefonico e email. Per maggiori informazioni potete visitare il sito ufficiale di EXTRA, dove troverete anche il programma del festival.

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