La guerra che (ancora) non c’è
Venti di guerra coinvolgono, di nuovo, l’Ucraina. Analizziamo la questione a freddo, come se non ci riguardasse da vicino.
Venti di guerra coinvolgono, di nuovo, l’Ucraina. Analizziamo la questione a freddo, come se non ci riguardasse da vicino.
L’Occidente considera l’Ucraina un esempio di autodeterminazione democratica, la porta a simbolo di quanto si può crescere e migliorare solo per il fatto di scegliere la libertà. Non vogliamo discutere sul fatto che tale dichiarato miglioramento ci sia stato. A noi sembra evidente che uno stato con reddito pro-capite da terzo mondo (USD 12.500) e tra i più colpiti ancora adesso dall’HIV ne abbia di strada davanti. Ma non vogliamo rovinare l’immaginario di Paese che ha “scelto la libertà”.
Per la Russia, rappresenta la naturale continuazione del grosso grasso confine con gli altri, cioè noi, in una direttrice nord-sud dopo la fedelissima Bielorussia, legata a doppio filo in un rapporto di dipendenza economica. Un cuscinetto di sicurezza che non intende cedere facilmente al nemico.
Ma la guerra non riguarda l’Ucraina o, come dicono in Russia, l’ampliamento della NATO verso oriente. A dispetto delle informazioni mainstream, la NATO per statuto non può nemmeno valutare l’ammissione di un Paese con dispute sui propri confini, altro che ampliamento. Qualcuno doveva dirlo.
Non è pigrizia mentale, bensì l’esito di un’analisi seria delle dichiarazioni sommesse, di quelle urlate, delle minacce fatte e della situazione macroeconomica. Ma anche delle dinamiche storiche più recenti, quelle che – a giudicare da come vengono proposte le guerre del Novecento – arriveranno a studiare i nostri pronipoti. Forse.
Nessuno vuole la guerra, tutti vogliono mantenere viva la minaccia di una guerra.
Il clima di tensione è utile a tutti i contendenti, be’ certo, ad esclusione dell’Ucraina, ma quella si è già detto che conta poco niente. Una vera e propria guerra d’invasione non serve a nessuno, costa moltissimo e chiunque vincesse non avrebbe raggiunto il suo vero obiettivo. Non viviamo in un tempo buono per gli eroi. Lo sappiamo noi e lo sanno i litiganti.
La strada la conosce bene, è già entrato in Ucraina come un coltello nel burro nel 2014. Senza clamore e soprattutto senza divise ufficiali, con gli stessi miliziani strapagati che ovviamente non sono rimasti a sobillare gli animi nostalgici e non stanno addestrando gli insorti nelle regioni separatiste. Niente di tutto questo, ovviamente; sono gli ucraini che esprimono forte un desiderio e davanti a loro compaiono carri armati, mitragliatrici e armi leggere.
Sa la strada ma fa una scelta diversa: dichiara un’intenzione di guerra, anziché semplicemente farla. Certo, una questione è ammassare truppe regolari in una normale esercitazione e un’altra è dover pensare agli stipendi di guerra, al costo economico di un’azione che non può svolgersi sotto traccia.
Meglio quindi mostrare i muscoli ma senza fare a pugni, meglio raccontare un’invasione possibile che renderla reale. La Russia è da tempo specialista nella cosiddetta hybrid warfare, un tipo di guerra che ai colpi sparati preferisce gli attacchi informatici e campagne di disinformazione atte a indirizzare l’opinione pubblica nel modo desiderato. Ecco quindi che la comunicazione ha il suo peso, e i russi sanno come usarla al meglio.
Lavorano alla luce del sole, dichiarano esercitazioni programmate e spostano truppe solo per questo; scelgono come terreno per gli addestramenti proprio il confine che separa Bielorussia e Russia dall’Ucraina ma nessun colpo arriva dalla parte sbagliata; giocano con la voglia di Biden di lasciare un segno nobile, almeno uno, nella politica estera utilizzando frasi volutamente provocatorie ma senza mai scadere nella parola di troppo.
Lascia parlare i suoi portavoce, a cui spetta il ruolo di disturbatori, con insulti spesso meritati e gentilezze volutamente finte. E quando il cancelliere tedesco dice le paroline magiche Nord Stream 2, è molto semplice dichiarare concluse le esercitazioni e ritirare alcune truppe.
La UE non vuole la guerra per amor di pace, dicono. È solo un caso che il Paese sia attraversato da un gasdotto e un oleodotto considerato strategico per il fabbisogno energetico europeo. Sono coincidenze, dicono da Bruxelles, vantandosi di come, subito dopo la grande crisi petrolifera degli anni Settanta, le importazioni dalla Russia coprissero oltre l’80% delle necessità dell’Europa, mentre ai giorni nostri sono solo il 40%. Quel “solo” che grattando la superficie evidenzia numeri ben diversi a seconda del paniere energetico dei singoli Paesi membri e che vede l’Italia in una condizione piuttosto fragile. Ma non stiamo parlando dell’Italia.
Al di là dei proclami, la UE teme la guerra, non vuole la guerra; sarebbe costretta alle sanzioni, seguite dalle controsanzioni di Putin, e si troverebbe nel mezzo di una crisi energetica, in inverno per di più. Anche per coprire “solo” il 40% del suo fabbisogno, dovrebbe ricorrere ad altri venditori, che già ci sono ma non bastano. Le difficoltà produttive in Algeria e Libia non aiutano e per comprare tutto quel gas liquido (LNG) servono punti di stoccaggio e rigassificatori – tutte orrende infrastrutture di cui non ci siamo mai dotati, ché deturpano il paesaggio.
Non dimentichiamo però che, se non lo vende a noi, Putin ha ben poche alternative per tutto quel greggio e metano, circondato com’è da stati che galleggiano sulle commodities e non hanno paura di usarle. Anche la Cina, con la sua fame di energia, non è in grado di assorbire tutta la capacità. Prima di chiudere il gas di un Paese che dipende dalle esportazioni per tre quarti del suo PIL, Putin deve stare attento di non finire anche lui al fresco.
In calo di consensi, il presidente americano ha bisogno della crisi per dimostrare che non è un simpatico vecchietto rimbambito come lo dipinge la stampa domestica dal giorno della “fuga” dall’Afghanistan. È pur sempre a capo della superpotenza che ha vinto la guerra fredda, che da allora domina il mondo e ne garantisce la pace con il suo sguardo generoso.
No, nemmeno lui è riuscito a leggerlo, questo discorso. Ha cominciato a ridere e non riusciva a fare la faccia seria, quella che fa paura. Abbiamo scherzato, è chiaro. Ma non è che le parole usate nella realtà dal Presidente abbiano dato dimostrazione di maggior professionalità. Quando Biden ricorda che “l’Ucraina non è un Paese NATO” sta dicendo che la NATO non ha alcun obbligo di intervenire in sua difesa; quando dichiara che “per uno sconfinamento minore, si dovrebbe valutare la risposta” apre a uno scenario che sembra rinunciare da subito alla forza militare.
A poco servono i salti mortali del suo entourage per riformulare e chiarire interpretazioni corrette, Biden è perfino ingenuo nell’esternazione. Si vede, dalla postura, dallo sguardo fiero e dal gesticolare, che vorrebbe annientare il nemico in poche mosse. Ma è costretto a considerare un quadro più ampio, in cui entra di forza la Cina. Dichiarare guerra a Putin, significa avvicinarlo pericolosamente all’altro contendente dell’egemonia mondiale.
La NATO è forte e pronta a qualsiasi intervento, le circa 50.000 unità sparse nei Paesi affacciati verso oriente sono caldissime. Peccato che l’Ucraina non sia un Paese membro e nessuno la voglia ammettere nel club almeno nel medio termine.
L’Europa è forte e unita finché la minima difficoltà la divide: la processione di molte personalità politiche di alto livello al Cremlino ha avuto un unico denominatore comune, la voglia di salvare i propri interessi prima di tutto. L’unico caso in cui l’incontro è stato definito positivamente dai russi riguarda il tedesco Scholz che ha messo sul tavolo il blocco del nuovo gasdotto Nord Stream. L’ha piazzato lì, proprio accanto al vino della tenuta principesca dello zar, quella che tanti guai ha provocato al povero Navalny.
Biden esce male dal conflitto delle parole, lasciando poca speranza per un’eventuale azione militare. È caduto nella rete, ha abboccato alle provocazioni in un’escalation verbale a senso unico. Il mondo ha il suo dispiegamento di 8.500 unità addizionali, contro le oltre 100.000 mosse dal rivale, ha ascoltato frasi di minaccia, derise puerilmente dall’avversario come “isteria occidentale”.
Putin ha avuto quel che voleva: ha avuto tutti gli occhi puntati sul suo ego sofferente, ha ritrovato un ruolo da protagonista nella leadership mondiale e si porta a casa una ritrovata credibilità al tavolo delle negoziazioni sul nuovo paradigma per la sicurezza dell’Europa.
Se ci fosse stata una guerra, si potrebbe dire che l’ha vinta lui. Ma una guerra non c’è stata, vero?
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