Agatha
L'8 febbraio è la Giornata Mondiale di riflessione contro la tratta di persone. Abbiamo intervistato Agatha, che è stata vittima di sfruttamento sessuale e ora si sta riscostruendo una vita.
L'8 febbraio è la Giornata Mondiale di riflessione contro la tratta di persone. Abbiamo intervistato Agatha, che è stata vittima di sfruttamento sessuale e ora si sta riscostruendo una vita.
L’8 febbraio è la Giornata Mondiale di riflessione sulla tratta di persone, promossa dalla Chiesa, che conta numerosi partner in tutto il mondo (tra cui Caritas Internationalis e JRS). Per tratta si intende la vendita e il trasporto di persone umane, ai fini dello sfruttamento lavorativo o sessuale. Ne avevamo parlato anche a luglio, in occasione della Giornata Internazionale, questa volta promossa dall’Onu.
Il fatto che ci siano varie giornate dedicate alla piaga della tratta, è indice di quanto radicata e diffusa sia questa problematica. Tutte le statistiche continuano a confermare la crescita del numero di persone umane, vendute e trafficate a fini di lucro. Stiamo parlando di qualcosa che interessa la vita di oltre 40 milioni di donne, uomini e bambini.
La pandemia, che è riuscita a bloccare i mercati mondiali, non ha però fermato questo particolare mercato, perché tecnicamente parlando, di questo si tratta: un commercio di merce umana, che viene sfruttata, fatta sposare forzatamente, o usata per la vendita di organi.
Quest’anno, il tema proposto per l’8 febbraio, è “La forza della cura: donne, economia, tratta di persone.” Noi di Heraldo, abbiamo voluto saltare cifre e statistiche, e provare ad andare a vedere cosa significa vivere, sulla propria carne, questo fenomeno che ci appare sempre così lontano.
Abbiamo incontrato Agatha, (il nome è di fantasia), in Italia da tredici anni, che è stata sfruttata nelle nostre strade e che ora si sta riscostruendo una vita con tanta determinazione e forza di volontà, anche grazie alle operatrici dei servizi anti-tratta, che esistono nel nostro territorio.
Agatha, quando è arrivata in Italia?
«Sono arrivata nel 2009.»
Come è arrivata?
«Lavoravo come parrucchiera in Benin, Nigeria, dove vivevo. Avevo 22 anni ed ero mamma di due bambini: uno di 3 e il più piccolo di 1 anno. Un giorno arriva una signora, una donna molto conosciuta e molto stimata nel mio paese. Era, ed è ancora, una donna potente.
Era venuta a farsi fare i capelli da me e mentre lavoravo mi comincia a raccontare che ha una figlia in Italia, che io potevo andare a lavorare con lei. Mi lusinga, mi dice che sono molto brava, che ho un bell’aspetto e che avrei potuto avere molto successo in Italia. Io ero giovane e avevo il pensiero di crescere i miei figli, di dare loro una bella vita. La signora insisteva, addirittura mi propone di occuparsi lei dei miei figli, mentre sono in Italia, e poi aggiunge una frase che al momento non capisco: “Loro saranno la mia garanzia”. Accetto con entusiasmo, non mi sembrava vero di avere una proposta di lavoro in Italia, di poter fare la parrucchiera in un paese europeo. In poco tempo la signora organizza tutto: mi procura il passaporto, il visto per l’Italia, il biglietto di aereo. Fa tutto lei. Paga tutto lei. Mi dice che i soldi glieli avrei ridati con il mio futuro lavoro in Italia. E così parto, piena di belle speranze.»
Dove è atterrata?
«A Torino, dove mi aspettava la figlia della signora. Da subito però capisco che qualcosa non va. Appena arrivata, la donna si prende tutti i miei documenti. Li strappa e li butta via. Poi mi fa imparare a memoria una storia in cui dovevo usare un nome falso. In cui dovevo dire che ero arrivata con i barconi, via mare. Il giorno dopo mi porta in Questura a Torino e mi fa fare la richiesta di documenti. Mi costringe a dire un sacco di bugie. Ma io facevo tutto quello che mi ordinava. Che altro potevo fare? Ero senza soldi, senza documenti, non parlavo italiano, niente. In più lei mi ripeteva continuamente: “Guarda che noi abbiamo i tuoi figli. Se non fai quello che ti diciamo, facciamo loro del male!”»
E poi? Dove l’hanno portata?
«Mi hanno portato a Firenze. Ero in un appartamento con altre tre ragazze nigeriane. Tutte alle dipendenze di questa donna. La sera ci prendono tutte e ci mettono in un treno. Io sono stupita. Mi chiedo se è possibile che mi portino a fare i capelli di notte. Invece ci scaricano in una strada dove c’è un distributore. Lì mi danno un paio di mutandine e un vestito corto. Mi dicono di cambiarmi e di stare in strada ad aspettare. Vedo le altre ragazze che cominciano ad andare con i clienti. Io non ci volevo credere. Appena la donna e i suoi scagnozzi se ne vanno, mi nascondo dietro a delle piante e me ne sto lì tutta la notte. Il giorno dopo la donna viene nell’appartamento con un uomo. Mi picchiano a sangue. Mi dicono che devo fare la prostituta, perché ho 60mila euro di debiti con loro. E se non pago i soldi loro fanno del male ai miei figli. Mi lasciano piena di sangue e di botte. Mi ci vogliono tre giorni per rimettermi in piedi. Le altre ragazze mi aiutano. Mi dicono di rassegnarmi, che non c’è altro modo che pagare il debito, per essere libere. Mi sento una croce che mi chiude il petto. Mi sento morta. Cedo e inizio a fare la prostituta. Io sono una dura, che non si fa abbattere… pensavo solo a pagare il debito per andarmene.
Ogni 10 giorni gli davo 1000 euro. Altri dieci giorni, altri 1000 euro. Ogni mese loro si tenevano anche 400 euro per l’appartamento e 50 per il cibo. E io ogni 10 giorni, gli davo ancora 1000 euro. Quando ho visto che nessuno teneva i conti dei soldi, mi sono presa un quaderno, che ho ancora con me. Mi segnavo tutto. Dopo tre anni, sono arrivata a dargli 50mila euro. Arrivata a quella cifra ho iniziato a chiedere dei miei figli. Li rivolevo indietro. Tramite mio fratello sono riuscita a organizzare la riconsegna. È andato lui a riprenderli. E li ha portati via a quella signora potente che, ora lo so, faceva parte della mafia locale. Appena ho saputo che erano liberi sono scappata, e sono andata a denunciare.»
È mai tornata dai suoi figli?
«Oh sì! Dal 2018, da quando ho avuto i miei veri documenti definitivi, vado ogni anno. Non sono andata nel 2020, a causa della pandemia. E forse non ci andrò nemmeno quest’anno, perché sto affrontando un sacco di spese. È sempre una gioia tornare da loro! Solo l’anno scorso non è stato bello tornare.»
Perché?
«Perché hanno ammazzato mio fratello. È stato ucciso non si sa da chi. Ma io so che sono stati loro! Lo sento! E mi sento in colpa… mio fratello è morto per colpa mia…»
Vuole dire che dopo tutti questi anni, la storia non è ancora finita?
«No… A luglio dell’anno scorso mi hanno chiamato in Tribunale per testimoniare. Il processo non è ancora finito… Le donne che mi hanno sfruttato sono molto arrabbiate con me. Per anni mi hanno cercato e minacciato. I miei figli li devo spostare continuamente da un posto all’altro. Perché non li trovino, come hanno fatto con mio fratello. Ora sono più grandi, hanno 15 e 13 anni… Sono stanchi di doversi sempre muovere, di non avere radici. Ho dovuto spiegargli il perché. Non vedo l’ora di poterli portare qui con me, al sicuro.»
Come si sente adesso?
«Sono contenta della vita che ho adesso. Quando ero in strada pensavo che quella fosse l’unica vita possibile per me. Poi sono scappata, sono stata aiutata dalle educatrici dei progetti anti-tratta. Ho cambiato tanti lavori e ora, dopo 6 anni, sento che posso avere una vita bella anche io. Ho un lavoro fisso e ben pagato, sto studiando per ottenere un titolo professionale, ho preso la patente. Tra poco avrò un appartamento tutto mio, dovrò fare un mutuo… L’impiegata della banca mi ha chiesto: “Sei da sola, hai dei figli… ma sei sicura di riuscire a pagare un mutuo?” Io ho riso e le ho risposto: “Vedrai che ce la faccio!”»
Cosa direbbe oggi, alle ragazze costrette a stare in strada?
«Di non credere che quella è l’unica vita possibile. Di non credere che non si può cambiare, che non si può scappare. Che si può essere libere e autonome. Che anche loro possono avere una vita bella. Ci vuole coraggio, impegno. Ma quella non è l’unica alternativa. »
E ai clienti, cosa direbbe?
«Di non andare dalle ragazze in strada. E se vedono che hanno dei segni sul collo, in viso, dei graffi, di non far finta di niente. Di lasciarle stare. Perché la vita in strada è una schifezza.»
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