Le case di comunità a caccia di medici di base
La realizzazione delle case di comunità nel nostro Paese porterà via forze alla medicina generale e guardia medica, già in grosse difficoltà negli ultimi anni.
La realizzazione delle case di comunità nel nostro Paese porterà via forze alla medicina generale e guardia medica, già in grosse difficoltà negli ultimi anni.
Il disegno di inserire la medicina del territorio tra i servizi erogati dalle “case di comunità” pone molti interrogativi.
Le case di comunità, definite come “Il luogo fisico e di prossimità, di facile individuazione, al quale l’assistito può accedere, per poter entrare in contatto con il sistema di assistenza sanitaria, sociosanitaria e sociale”, sono previste dalla bozza di documento approvata nell’aprile 2021 da Age.na.s. (l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) e Ministero della salute nell’ottica del PNRR.
Il nostro Paese destinerà un’ingente somma elargita dall’Europa per la realizzazione delle case di comunità. Dovranno garantire una presenza medica ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette.
Di che medico si tratterà? Un medico formato per questo peculiare servizio o, come sembra, ci si avvarrà del medico di medicina generale e di continuità assistenziale (guardia medica)?
L’ultima ipotesi sembra la più probabile, in considerazione del fatto che non ci sono né i tempi né il personale necessari, per sopperire in modo adeguato a tale servizio. Ecco dunque il medico generalista cooptato a questo nuovo compito.
Le nuove strutture dovrebbero essere circa 1288 su tutto il territorio nazionale di cui circa un centinaio in Veneto. Ognuna di esse dovrebbe impegnare dieci medici.
Ne deriva che verranno ascritti tredicimila medici, tra generalisti e di continuità assistenziale, sguarnendo paurosamente il territorio dove, in questo momento, già si sopperisce a stento alla loro mancanza con l’innalzamento del massimali , ossia il numero di pazienti assistibili da un singolo medico.
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Le case di comunità vengono definite come “luogo fisico di prossimità”, ma possono veramente dirsi tali, visto che ne conteremo una ogni quarantamila abitanti?
Finora il concetto di prossimità si esprimeva con la presenza del medico generalista sul territorio, inserito nel contesto socio-familiare e lavorativo del paziente.
Un esempio pratico: il comune veronese di Villafranca avrà la sua casa di comunità, potrà il servizio definirsi “medicina di prossimità” quando il paziente dovrà sobbarcarsi una ventina di chilometri per raggiungere il proprio sanitario di libera scelta, non essendoci più nelle sue vicinanze un medico al quale rivolgersi?
Perché per il medico generalista è importante con la sua presenza quotidiana sul territorio.
È mia personale opinione, dettata da più di trent’anni di professione come medico generalista, che sia fondamentale la possibilità di conoscere dove vive e opera l’assistito, conoscere le sue condizioni igieniche, socio-familiari e ambientali.
La presenza sul territorio, a diretto contatto con l’assistito, permette di riconoscere atteggiamenti e abitudini voluttuari come alcolismo, tabagismo, utilizzo di sostanze stupefacenti.
Inoltre dà la possibilità a molti anziani di gestire ancora in autonomia il rapporto con il medico riferimento.
Distogliere, allontanare il medico generalista dal territorio significa mutilare pesantemente le conoscenze che il medico può acquisire del proprio assistito e privare quest’ultimo di una relazione immediata e continuativa con il medico di sua scelta.
Negli ultimi decenni la medicina generale è andata verso forme di aggregazione sostenute dalle autorità sanitarie con il chiaro intento di avere orari di apertura degli ambulatori di medicina generale più prolungati affinché ci fosse la presenza sul territorio almeno dodici ore al giorno (vedi Utap) di un medico, nella speranza di ridurre così gli accessi, cosiddetti incongrui, ai Pronto Soccorso.
Speranza dimostratasi del tutto velleitaria.
Di fatto le Utap, le medicine di gruppo, non hanno fatto altro che impoverire il territorio della presenza quotidiana del medico generalista, creando mal servizio e comune scontento.
Si può facilmente constatare che intere comunità sono rimaste sguarnite dei propri sanitari, ai quali viene economicamente incentivata l’aggregazione. Sovente questi gruppi si sviluppano all’ombra di una farmacia.
Diventerà la farmacia l’unico presidio sanitario dove il cittadino potrà trovare assistenza? Sembra proprio così. Il percorso intrapreso è alquanto impervio e, se ciò non bastasse, appare evidente l’ assoluta impreparazione ad affrontarlo.
Si rischia, dopo più di un secolo, di affondare la medicina territoriale che ha sì bisogno di rinnovarsi, ma necessita di una visione lungimirante, senza anteporre i risultati economici agli interessi dei cittadini.
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