“Qui c’è un gran panino imbottito di merda e tutti quanti devono ingoiare il loro morso.” Cit. dal film Full Metal Jacket

“Da gennaio la bolletta dell’elettricità aumenterà del 55%, quella del gas del 41,8%” segnala l’Agi. Una vera mazzata, che a livello produttivo si trasforma in una catastrofe per le aziende che, per la CGIA di Mestre, “nei primi 6 mesi del 2022, metterà a rischio, almeno con la sospensione temporanea, 500 mila posti di lavoro in Italia.”

Un bel quadretto: aumentano i costi delle bollette per le famiglie che, conseguentemente, diminuiscono il loro potere di acquisto (o lo riducono del tutto, nel caso di perdita del posto di lavoro) e perciò si vedranno costrette a contrarre i consumi. Consumi che, da parte loro, patiranno un aumento generalizzato dei prezzi dovuto all’aumento dei costi dei produttori e persino della filiera. Un bel guaio. Certo, qualcuno potrebbe dire che, almeno, abbiamo risolto uno degli incubi dell’economia europea pre-pandemia, ovvero la deflazione, ma è una magra consolazione.

E qui ci troviamo di fronte a una situazione paradossale: la salvaguardia dell’ambiente passa attraverso la contrazione dei consumi. Ovvero: il benessere del pianeta richiede la riduzione della nostra capacità di consumo e la revisione del concetto di benessere, che oggi è la capacità di creare e soddisfare desideri attraverso prodotti. Se questo cambiamento prima però era affidato alla responsabilità individuale, oggi viene imposto da una congiuntura economica che pare destinata a durare.

I primi tentativi di un cambio di rotta li abbiamo intravisti dalle colonne di questo giornale nel 2019, quando il governo Conte II si trovò, per gestire la patata bollente dell’aumento dell’Iva, a ragionare su tasse di scopo o sui consumi con l’idea di “rendere virtuosi i cittadini facendo costare i comportamenti scorretti, per loro stessi e la società”. La stessa politica del bonus monopattini o del bonus 110, per capirci. Oggi, di contro, siamo di fronte a un mix di cause esterne che trasformano le scelte virtuose in necessità di sopravvivenza: la speculazione finanziaria e una congiuntura economica-politica particolare causata dal dirottamento del gas russo verso la Cina e dallo stop del gasdotto Nord Stream 2. Il risultato, com’è sotto gli occhi di tutti, è l’aumento generalizzato e deciso dei costi.

Le fole del nucleare

In questa crisi, alcuni partiti politici ripartono con il mantra del nucleare di quarta generazione come soluzione tanto da dichiararsi pronti a un nuovo referendum. Soluzione che non lo è per una serie di motivi. In breve: l’energia ci serve ora e non possiamo attendere una decina di anni (che in Italia, come sappiamo, come minimo raddoppieranno sia come tempi sia come costi) per avere energia che ci serve ora. In più, il problema delle scorie: l’esperienza nucleare in Italia non è mai partita davvero (stoppata subito dal referendum) e ancora non abbiamo un deposito per gli scarti degli impianti attivi fino al 1987: la mappa con le aree potenzialmente idonee è stata presentata il 5 gennaio 2021, ovvero 34 anni dopo il referendum. Infine, il problema dell’identificazione dei siti per le centrali e per i depositi: le aree del Paese che pescheranno lo stecchino più corto accetteranno magno cum gaudio di avere il privilegio di una centrale nucleare o di un deposito di scorie radioattive dietro casa? Siamo disposti a militarizzare i cantieri e le aree interessate come per la Val di Susa, che di fatto protesta “solo” per un treno? Alla presentazione della mappa le regioni coinvolte si sono già messe di traverso.

L’energia pulita

Da anni si chiacchiera del solare, dell’eolico e, in generale, di fonti di energia rinnovabili. Tuttavia, il Belpaese invece di rendere economicamente appetibile e remunerativo l’investimento diffuso delle famiglie per mettere almeno un pannello solare su ogni tetto (aumentando così l’energia disponibile e ripartendo i ricavi in modo diffuso, mentre oggi con la crisi a guadagnare sono giganti come Eni, Enel e A2A), lascia che il sistema venga imbrigliato e rallentato dalla burocrazia e da una normativa semplificata che semplificata non è; così, di fatto rimanda a soluzioni “risolutive” come il nucleare che come visto non risolvono alcunché nel breve periodo e invece creano nuovi problemi sul medio e lungo termine e, intanto, distolgono attenzione e risorse alle rinnovabili.

Sempre più commensali alla stessa tavola

Il fatto è che sulla ribalta internazionale popoli come la Cina (1,4 milardi di persone) hanno visto esplodere negli anni il loro PIL pro-capite ed oggi sono in competizione con l’Occidente per il gas russo e, in generale, per le stesse risorse e gli stessi prodotti, visto che – libertà di pensiero a parte – sognano di possedere le stesse cose e le stesse comodità degli occidentali. Non a caso su Forbes Antonio Cesarano, chief global strategist di Intermonte, affermava già a ottobre che

“Russia e Cina probabilmente cercano di orientare il nuovo atteggiamento geopolitico dell’area verso di loro. Per facilitare il tutto, fanno pesare la loro importanza, rallentando la catena di fornitura. La Russia lo fa con il gas, la Cina non solo con la componentistica, ma anche con i fosfati, importanti per i fertilizzanti, di cui è primo esportatore mondiale e per i quali è stato bloccato l’export nel 2022. Anche per queste ragioni i livelli di scorte di gas in Europa sono su livelli molto bassi, esponendo al rischio di una crisi energetica”. 

Così l’Europa teme di perdere (a ragion veduta) il benessere diffuso che ha conquistato nei secoli grazie alla supremazia militare ma ora si accorge di non avere né le materie prime necessarie né la capacità di attrarle in via prioritaria né spesso un settore secondario industriale (per effetto della delocalizzazione) sufficiente per trasformarle.

E quindi?

Cosa aspettarsi dunque? Nel breve periodo, sicuramente un depauperamento delle risorse delle famiglie dal ceto medio in giù, che sempre di più si troveranno a ragionare in termini di sussistenza e mera sopravvivenza e quindi un’ulteriore polarizzazione nella distribuzione dei redditi; una crisi di produttività (e, quindi, posti di lavoro) per l’aumento dei costi di produzione e un mercato interno sempre meno ricettivo; un aumento del debito pubblico, se i costi dell’energia verranno scaricati sul bilancio pubblico.

Gli italiani e gli europei, intanto, si dovranno così piegare obtorto collo a stili di vita più frugali e parsimoniosi in linea paradossalmente con le politiche di contrasto al climate change; un cambiamento di abitudini che, se non accompagnato da un nuovo paradigma culturale che alla crescita illimitata preferisca un uso razionale e consapevole delle risorse, sarà sì nel segno di una decrescita certo ben poco felice.

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