Il cambiamento è parte di noi, come individui, come comunità, come società: ogni tanto si presenta burrascoso e radicale come una rivoluzione, ogni tanto sottile come un piccolo aggiustamento di rotta.

I Don’t Live Here Anymore, l’ultimo album di The War On Drugs, uscito il 29 ottobre 2021, si avvicina senz’altro di più a quest’ultimo estremo, costringendo però ad una fondamentale presa di coscienza: anche i cambiamenti più sottili possono avere delle conseguenze radicali. 

Le novità stilistiche presenti nell’ultimo album della band di Philadelphia infatti ci sono, anche se non le si può certamente definire sconvolgenti. I War On Drugs sembrano infatti aver trovato le loro fondamenta sonore, un sound che pesca dagli anni Ottanta (con spunti tra cui Bruce Springsteen e Bob Dylan, soprattutto) e filtrano sempre meglio attraverso la propria sensibilità, concentrandolo sempre più all’essenziale di ciò che il gruppo vuole essere.

La maturazione, con I Don’t Live Here Anymore, si può definire completa.

Il sound

Il sound è quello a cui ci hanno abituati con gli ultimi due album, eppure con qualche sfumatura più intimista, che si può riscontrare chiaramente anche nelle tracce con gli arrangiamenti più smaccatamente da stadio, negli infiniti strati degli accordi di synth e nella distorsione rauca della chitarra elettrica.

Quest’ultimo album sembra essere la versione leggermente ridotta, rivista e perfezionata del suono di A Deeper Understanding, che riacquista così nuova vitalità, accompagnata dalle ormai solidissime capacità di Adam Granduciel come songwriter.

Sotto ogni aspetto, quindi, I Don’t Live Here Anymore è l’album più maturo e consapevole dei War On Drugs, che sono riusciti a trovare la loro identità, a esplorarla attraverso i lavori precedenti e a cristallizzarla in un prodotto completo e profondo.

Il gruppo al completo, fotografata in occasione dell’uscita dell’album

L’origine del cambiamento

Riguardo a Granduciel c’è una piccola – ma non troppo – novità, che ha profondamente influenzato tutta la sua persona e il suo rapporto con la propria musica.

Nel luglio 2019, è diventato padre (ed ha chiamato il figlio Bruce, dimostrando che Springsteen è un’importante influenza su tutta la sua vita, non solo sulla sua musica).

Adam Granduciel (pseudonimo di Adam Granofsky) è cresciuto, è maturato e con lui il è maturato anche il suo modo di scrivere.

Non c’è più traccia di autocommiserazione nelle sue parole, ma una ritrovata stabilità nel cambiamento, nella crescita. I testi sono così più ancorati alla realtà e, pur affrontando sempre i temi cari al frontman tra cui l’amore, la sofferenza, la memoria, la morte, lo fanno con una nuova lucidità, imperniata sul nucleo centrale del cambiamento. Nucleo centrale che è perfettamente in sintonia con le novità presenti nei pezzi, tra cui cori, collaborazioni e riff che nella loro semplicità catturano l’ascoltatore in uno spazio sonoro, in cui ogni strumento – voce compresa – si inserisce perfettamente.

Un complesso di accorgimenti strutturali e di missaggio che danno più respiro alle tracce e confermano la maturità del gruppo, solidificando l’alchimia di cui si nutre la loro musica.

Dio è nei dettagli

Dalla canzone di apertura, la dolce e sussurrata Living Proof, passando per le tracce più innovative come I Don’t Wanna Wait (con suoni che ricordano un Phil Collins solista) per giungere fino alla chiusura di Occasional Rain, l’intero album è un viaggio attraverso l’incertezza, la paura, la solitudine, che una volta concluso rivela una rinnovata stabilità, una nuova saggezza, insieme alla semplice bellezza che sprigiona da ogni canzone, grazie alla chimica perfetta degli arrangiamenti e dell’orchestrazione di tutte quelle piccole novità di cui questo lavoro è pieno.

Se a un primo ascolto superficiale quest’ultimo album può risultare fin troppo simile ai precedenti, è nell’ascolto approfondito che si riescono a individuare i cambiamenti sottili, i piccoli dettagli che, una volta riconosciuti, liberano tutta la loro forza travolgente.

Un piede nel passato e lo sguardo verso il futuro

Quest’ultimo lavoro, insomma, va assaporato, ascoltato e riascoltato. Ma se proprio vi dovesse mancare il tempo, se per qualche motivo doveste scegliere di ascoltare una sola canzone che riassumesse il più possibile i contenuti del disco, dovrebbe senz’altro essere la title track, che racchiude il nocciolo della questione generatrice dell’album.

I Don’t Live Here Anymore, grazie anche al contributo della band Lucius, libera in tutta la potenza del ritornello il piacere e il dolore del cambiamento, illuminando di una nuova luce il viaggio della band attraverso il tempo. Una canzone che afferma a pieni polmoni che non importa quanto la cerchi nel passato, la risposta è sempre nel futuro.

Ed è lì che, nonostante la nostalgia degli anni Ottanta, ci stanno accompagnando i War On Drugs.

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