Cingolani non ha tutti i torti
Una recente battuta del Ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani è l'occasione per riflettere a fondo sullo stato di salute della scuola italiana.
Una recente battuta del Ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani è l'occasione per riflettere a fondo sullo stato di salute della scuola italiana.
Ci risiamo. Mi sembrava strano. Da tempo (forse la pandemia ha deviato l’attenzione nell’ultimo biennio) la scuola non veniva più tirata in ballo per trovare le ragioni di qualche insufficienza del sistema generale della vita sociale. Il Ministro Cingolani qualche giorno fa ha ripreso l’antica prassi.
Due casi analoghi ricordo di recente per diretta esperienza. Il primo: l’affermazione perentoria, sentita, consapevole di Pierfrancesco Favino che mentre ritirava un premio per la sua attività di interprete (vado a memoria, mi pare fosse il Donatello) disse che bisognava insegnare il cinema a scuola, ovvero che il cinema doveva diventare materia scolastica. Il grande attore non sa però quanta produzione di filmati, cortometraggi, clip e altro (parlo delle cose serie non delle sciocchezze da telefonino) si faccia ogni anno nelle scuole, dove ormai si trovano anche studi di montaggio e sale di posa.
Il secondo: l’aspra rampogna di un genetista della vite che al momento di essere insignito di un celebre premio assegnato da una nota e importante casa vinicola veronese, sostenne che gli italiani hanno paura della genetica perché a scuola non se ne parla e la scuola non insegna le scienze. Forse non sa che persino chi scrive nel suo liceo cinquant’anni fa fu messo a dura prova dai piselli di vario colore e dalle leggi di Mendel e che da oltre un decennio in tutte le scuole superiori italiane le scienze si insegnano a partire dal primo anno
Che dire? Purtroppo ognuno parla non della scuola vera e attuale, ma della scuola che ha frequentato e dell’idea che della scuola pensa di avere sulla base di esperienze parziali. E questo è in fondo quello che è successo al ministro Cingolani, al quale sfugge 1) che le guerre puniche si studiano solo due volte nel curriculum nazionale (non tre o quattro), in terza classe primaria (qualche volta anche in seconda), e in prima superiore; 2) che spesso Quinto Lutazio Catulo e Gaio Duilio, Annibale e Scipione l’Africano, Catone il Censore e Scipione l’Emiliano sono schiacciati senza pietà fra lo sviluppo dell’ominazione da un lato e la caduta dell’impero romano dall’altro, così che chi nella scuola ci vive e respira ha la sensazione che ormai la battuta del ministro sia fuori del tempo.
A prescindere da quello che poi accade veramente nei fatti e nelle mille diverse sedi della scuola primaria italiana, questo è il nocciolo della questione: il cosiddetto “programma” scolastico, è un termine obsoleto e rottamato perché la Magna Charta del primo ciclo di istruzione si chiama “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione” è stata pubblicata nel 2012 e rivista nel 2018. Cito da quel documento (edito da Le Monnier) a pagina 52:
“Una più sistematica strutturazione cronologica delle conoscenze storiche sarà distribuita lungo tutto l’arco del primo ciclo d’istruzione. In particolare alla scuola primaria sono assegnate le conoscenze storiche che riguardano il periodo compreso dalla comparsa dell’uomo alla tarda antichità; alla scuola secondaria le conoscenze che riguardano il periodo compreso dalla tarda antichità agli inizi del XXI secolo. L’ultimo anno della scuola secondaria di primo grado viene dedicato allo studio della storia del Novecento.”
Nel 2018 poi un comitato di esperti rivide le indicazioni del 2012 alla luce delle nuove pressanti esigenze del mondo contemporaneo: “Il documento propone alle scuole una rilettura delle Indicazioni nazionali emanate nel 2012 ed entrate in vigore dall’anno scolastico 2013/2014 attraverso la lente delle competenze di cittadinanza, di cui si propone il rilancio e il rafforzamento. Dalle lingue (quella madre e quelle straniere), al digitale, all’educazione alla sostenibilità, ai temi della Costituzione. Passando in maniera trasversale per le arti, la geografia, la storia, il pensiero matematico e computazionale.“ (dal sito www.indicazioninazionali.it)
Forse i più non sanno che da oltre vent’anni i nostri ragazzi studiano inglese fino alla quinta superiore e spesso iniziano ad avere i primi approcci a quella lingua non dico alla scuola primaria, ma persino a quella dell’infanzia.
Chi sa di scuola sa bene che mai come in questa stagione la scuola si è preoccupata soprattutto della modernità, dico di più, della “contemporaneità” e dei suoi problemi. Come mai allora ci troviamo di fronte a una forte carenza di tecnici, a una diffusa ignoranza (persino paura) dell’inglese e sembra che la cultura scientifico-tecnologica sia sempre seconda rispetto a quella umanistica? Molto probabilmente per due ragioni. La prima è il fatto che scienza e tecnologia, matematica e fisica, non diversamente dal greco e dal latino, sono discipline difficili, che richiedono studio, concentrazione, impegno e non ammettono discorsività chiacchierologica. Chi sa di scuola sa bene che questi valori oggi sono in secondo piano rispetto ad altri come vivacità, espressività, divertimento. I nostri allievi sono pressati perché mille altri sono gli “interessi” di moda nell’extrascuola: sport, danza, strumento musicale, volontariato etc. etc.
Non solo: i dati forniti dal Ministero dell’Istruzione ci dicono che, su un totale di circa 2 milioni e 660mila studenti, il 51 % frequenta i licei, il 31,7 % gli istituti tecnici e il 17,3 % gli istituti professionali. Inoltre su circa un milione e 360mila frequentanti i licei (il numero corrispondente a quel 51%) nel corrente anno scolastico circa 576mila sono iscritti al liceo scientifico il che corrisponde a oltre il 44,5%. (Fonte: Ministero dell’Istruzione – Ufficio Gestione Patrimonio Informativo e Statistica).
In queste cifre, non facili da interpretare, io credo, sta il nocciolo della questione, che è assai complessa, perché si basa su una situazione schizofrenica. Da un lato abbiamo ben sedici licei che attraggono la maggioranza degli studenti, fra i quali la parte del leone la fa proprio lo scientifico. In tutti questi percorsi scienze inglese e matematica si insegnano per cinque anni. In qualcuno, come nel liceo scientifico delle scienze applicate si insegnano per cinque anni anche fisica e informatica. Nella secondaria di primo grado a scienze, matematica e inglese si aggiunge anche una materia chiamata proprio Tecnologia. Evidentemente però, non basta che il quadro orario preveda tutte quelle discipline bisogna anche studiarle, e molto bene. Siamo disposti a vedere i nostri figli faticare nelle discipline scolastiche come vorremmo che faticassero i figli degli altri? Vogliamo severità per tutti, siamo sicuri che il 99,7 per cento delle promozioni all’esame di stato sia l’indicatore di percorsi scolastici di alta qualità per l’universo degli allievi? Quanti sanno che il liceo delle scienze applicate non ha la sua identità nel fatto che il quadro delle materie non preveda il latino, ma un numero altissimo di ore (oltre la metà) dedicate a matematica, fisica, scienze sperimentali e informatica e non è una facilitazione dello scientifico, ma una sua super-specializzazione?
Detto questo rimane l’altra questione: come possiamo pensare che aumenti la cultura tecnologica, se gli istituti tecnici sono frequentati dal 32% scarso dei ragazzi? o forse pensiamo che ai tecnici ci vadano i figli degli altri, perché i nostri devono scegliere le scuole che noi consideriamo di più alto livello culturale? Siamo sicuri che i nostri istituti tecnici non garantiscano una formazione non solo tecnologica ma anche culturale adeguata alle situazione della contemporaneità? o forse abbiamo nei nostri schemi mentali l’idea che gli istituti tecnici odorino ancora di olio, limatura di ferro e kerosene? Chi conosce bene i nostri istituti tecnici sa che le tute blu hanno da tempo lasciato il posto ai camici bianchi, i quali operano spesso in laboratori di alta precisione, e devono adottare un tipo di comunicazione tecnico linguistica di alto livello.
In una battuta gli istituti tecnici sono molto più difficili a frequentarsi di non pochi fra i sedici licei disponibili, perché si misurano sul dato di fatto dell’esperienza e delle competenze specifiche e applicate. Non tocco nemmeno di striscio la questione dei professionali. Andremmo fuori tema. Basti solo dire che ormai sono frequentati quasi esclusivamente da extracomunitari o da studenti di cittadinanza non italiana o da naturalizzati di terza generazione che sono però assolutamente italiani di lingua e mentalità. Pensiamo a che ne sarà del nostro tanto acclamato “made in Italy” , quando dovremo importare (o pregare che vengano…) gli operatori da altri continenti.
Concludendo. La crisi della cultura tecnologica e scientifica, innegabile, è frutto di una mentalità comune, favorita dall’errore strategico della politica, che ha dato ai giovani italiani la possibilità di fuggire dall’impegno di studio, nel nome di una scelta dei percorsi scolastici non attenta a un futuro fondato sul lavoro, sulla dedizione, sulla competenza professionale sudata sul campo. L’idea che l’iscrizione a un liceo garantisca il successo nella vita ha fatto sì che una generica infarinatura culturale, scambiata per un preparazione scientifica seria, sia anche la causa dell’impressionante abbassamento del livello di preparazione degli studenti di fronte alle esigenze degli studi post-secondari.
Ovviamente questo non significa che in tutti i percorsi scolastici – liceali, tecnici e professionali – non ci siano ragazzi dotati di intelligenza brillante e di grande passione. Le mie riflessioni riguardano il quadro generale e vogliono da un lato accogliere come non prive di fondamento le dichiarazioni del ministro Cingolani, (che non è aggiornato e non conosce la scuola, ma ha perfettamente ragione) e dall’altro però rilevare come l’orientamento non riesca a incidere sulla gran parte delle famiglie. Se il consiglio orientativo avesse una efficacia significativa, non avremmo i licei frequentati da studenti che non hanno il corredo attitudinale tarato sull’astrazione e su panorami concettuali lontani dalla diretta esperienza delle cose, ma solo da coloro per i quali studio, ricerca e creatività sono alimento e vita, non condanna e sofferenza.
Per la gran parte dei ragazzi dovremmo poter contare su una scuola culturalmente seria, ma già coinvolta nelle dinamiche dell’economia e del lavoro, senza ansie produttive e senza tensioni di sfruttamento, ma attenta all’esperienza e allo studio come processo educativo integrato.
In sostanza il cambio di mentalità deve investire tutti, non solo la scuola, che sta già facendo l’impossibile. Deve cambiare la mentalità comune. È necessaria una nuova pedagogia dei territori, un Villaggio educativo globale che sappia accogliere e valorizzare i talenti dei giovani senza mortificarli. Questo è il futuro di una società civile che riprenda il dinamismo e la vitalità che tutti vorremmo ritornare a vedere.
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