Nel dibattito pubblico italiano, tanto a livello nazionale quanto nella dimensione più locale, il tema della cultura non sembra più da tempo in grado di scaldare gli animi. Tutto cambia, però, quando la cultura, suo malgrado, diventa terreno di scontro politico, risvegliando gli appetiti di una platea di personaggi tutti ugualmente interessati a brandire la spada del patrimonio culturale – che in un attimo si fa tradizione, e dunque identità – per dimostrare il proprio attaccamento al territorio e provare a tagliare le gambe all’avversario di turno. Senza con ciò – è triste constatarlo – entrare quasi ma nel merito dei problemi, approfondendoli.

È ciò che è accaduto a Verona, dove dopo la lunga – e per molti sorprendente – intervista rilasciata domenica 7 novembre dal soprintendente Vincenzo Tinè al principale giornale locale, per un paio di giorni musei monumenti e mostre hanno scalato la vetta dei temi d’attualità, finendo nella bocca e nei comunicati anche dei soggetti più improbabili. Fra i temi della ricca – e per chi scrive non del tutto sottoscrivibile – intervista al Soprintendente, quello che senza dubbio ha stuzzicato maggiormente l’appetito dei commentatori è la proposta di istituire una Fondazione dei Musei, che nelle parole di Tinè dovrebbe prendere la forma di una regia unitaria dei musei cittadini, mettendo in reti le varie istituzioni attualmente divise da gestioni e proprietà autonome.

La proposta, bisogna dirlo, non è nuova né particolarmente originale, ma la colpa non è certo del Soprintendente, che anzi ha fatto bene a rispolverarla facendola uscire da un lungo oblio. Di una Fondazione museale a Verona si parla almeno da una decina d’anni, da quando cioè gli Amici dei Musei Civici, per celebrare il proprio ventennale (e quest’anno soffiano su una torta da trenta candeline), organizzarono il convegno “Museo e città. Nuovi scenari tra pubblico e privato”, per stimolare il dibattito cittadino attorno alla questione – allora già caldissima – della gestione mista delle realtà museali e dell’autonomia gestionale dei musei, conseguibile anche tramite una collaborazione tra pubblico e privato. Già da tempo, infatti, numerose città italiane avevano iniziato a dotarsi di Fondazioni, affidando loro la conduzione del sistema dei musei civici, allo scopo di liberarlo dai rigidi vincoli di una dipendenza diretta da parte della macchina amministrativa comunale.

Nonostante le molte critiche ricevute, soprattutto da quanti paventano il rischio di una “privatizzazione” del patrimonio culturale – pericolo tutto sommato infondato, dal momento che mentre la gestione delle fondazioni beneficia di modalità tipiche del settore privato, tanto i musei e le collezioni quanto l’indicazione dei vertici delle fondazioni restano in capo ai Comuni – questo modello si è rivelato particolarmente efficace nel processo di valorizzazione dei sistemi museali locali, dimostrandosi non solo più economicamente sostenibile, ma anche più efficiente nel garantire alle istituzioni culturali risorse e personale qualificato. Rispetto a quanto prospettato dal soprintendente Tinè, infatti, le opportunità offerte dal modello delle Fondazioni dei Musei Civici sono assai più numerose, come dimostra una variegata casistica osservata nelle città dove sono state istituite. Sinergie virtuose fra realtà “forti” capaci di generare grandi profitti – l’Arena, nel caso veronese, sarebbe un buon esempio– e istituzioni più deboli, bisognose di risorse e di un vero e proprio rilancio – sempre restando a Verona, il poco distante Museo Lapidario Maffeiano – che possono addirittura “permettersi” così un’apertura gratuita per attirare un maggior numero di visitatori. Ma anche possibilità di intercettare finanziamenti e sponsorizzazioni dal settore privato in maniera più agile, maggiore possibilità di elaborare una programmazione culturale autonoma e di qualità reperendo autonomamente le risorse per sostenerla, assunzioni più agili e orientate ai profili specifici necessari ai musei in un determinato frangente: questi sono solo alcuni dei vantaggi che un simile strumento potrebbe offrire.

A Verona, però, il dibattito sollecitato nove anni fa non è mai decollato, complice una stagione non particolarmente felice per le politiche culturali: nello stesso anno del Convegno degli Amici dei Musei, infatti, si sarebbe insediata la seconda amministrazione Tosi, passata all’onore delle cronache per la vistosa assenza di un assessorato alla cultura, mentre un paio di anni prima il Comune – sempre a guida Tosi – aveva avviato una copiosa vendita di immobili storici, fra i quali spiccava Palazzo Forti, sede della Galleria d’Arte Moderna, lasciato dal generoso filantropo Achille alla città nel 1937. Nonostante le città vicine e lontane (Bologna, Venezia, Mantova, Brescia, solo per citarne alcune) si fossero già dotate di una Fondazione di questo, o lo stessero facendo, e benché negli anni a venire anche l’apparato dello Stato, con la riforma Franceschini, avrebbe optato per un approccio che andava in questa direzione, istituendo i cosiddetti musei autonomi, a Verona si decise di mantenere la situazione immutata, continuando ad affidarsi alla buona volontà dei singoli funzionari per garantire la qualità dell’offerta culturale e lasciando che parte del sistema museale si avviasse a un percorso di marginalità e decadenza. Unico intervento di rilievo, l’aumento improvviso e vistoso del biglietto di ingresso in Arena, che in presenza di una Fondazione avrebbe quantomeno potuto contribuire a riversare sull’intera rete museale i maggiori proventi, mentre finì semplicemente per drenare ulteriori risorse verso un bilancio comunale sempre più ingordo.

Da allora, la situazione a Verona non è molto mutata, e nella campagna elettorale del 2017 la proposta di istituire una Fondazione era uscita dai radar, se si esclude la voce pressocché solitaria di Verona Civica. A farla da padrone, invece, il mero ripristino dell’assessorato alla cultura, uno dei punti cardine del programma dell’amministrazione Sboarina, i cui primi atti furono appunto la nomina di Francesca Briani e l’introduzione di una direzione unificata dei musei civici. Tuttavia, senza autonomia gestionale e finanziaria, ossia senza una Fondazione, il sistema museale cittadino pur dotato di un direttore unico era destinato a rimanere ancora imbrigliato nelle rigidità burocratiche e nelle pastoie della politica, finendo per appesantirsi di fardelli in un frangente in cui questo settore avrebbe invece particolare bisogno di meccanismi agili e decisioni veloci. E, cosa non da poco in tempi di pandemia, da risorse economiche garantite, non suscettibili di tagli a favore di altre voci del bilancio pubblico.

Del resto, che oggi il sistema museale veronese sia piuttosto in affanno è sotto gli occhi di tutti: finanziamenti ridotti al lumicino, carenze di organico, assenza di una programmazione capace di uscire al di fuori della dimensione locale (la stagione delle grandi mostre di portata internazionale sembra essersi chiusa con l’esposizione del 2014 dedicata a Paolo Veronese). Ed è difficile non additare fra le cause di una simile condizione anche motivazioni connesse al suo assetto organizzativo.

Il conto da pagare per questo ritardo è purtroppo salato, e la vicina Brescia, non certo in vetta alle classifiche dell’immaginario collettivo quando si parla di città d’arte, rappresenta l’esempio più eclatante di questa occasione mancata. Lì, la lungimirante scelta, compiuta all’inizio degli anni 2000, di istituire la Fondazione sta già mostrando risultati di successo, dal fastoso restauro della pinacoteca civica Tosio Martinengo al riallestimento del Capitolium con l’esposizione della magnifica “Vittoria alata” fresca di restauro presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Ma soprattutto, proprio nei mesi più bui dell’emergenza sanitaria, è stata l’esperienza virtuosa dell’Alleanza per la cultura a mettere in luce la straordinaria mole di potenzialità che Verona sta sprecando.

Promossa dal direttore Stefano Karadjov insieme alla presidente della Fondazione Francesca Bazoli, l’Alleanza rappresenta un modello di fund raising innovativo fondato sue due principi cardine: la costruzione di un nuovo patto fra istituzioni pubbliche e partner privati, e una serrata pianificazione pluriennale, fondamentale per uscire dalla logica delle sponsorizzazioni-mancia (o elemosina, a voler essere malevoli) e fa entrare il tessuto imprenditoriale della città nella sua programmazione culturale. Un coinvolgimento intenso e diretto, che non mira soltanto a reperire fondi in un’ottica tradizionale, ma a istituire una nuova relazione fra i musei della città e il tessuto economico e sociale che li circonda, fondata su specifici obbiettivi comuni. In sostanza, gli elementi migliori di ciò che il territorio sa esprimere – il suo patrimonio culturale e la sua vocazione imprenditoriale – messi fra loro a sistema, per creare nuove opportunità di valorizzazioni e una rinnovata identificazione della comunità con le sue istituzioni museali.

Alla luce di ciò, appare evidente che, per una città a forte vocazione turistica e d’impresa come Verona, l’importanza di poter disporre di un simile strumento sarebbe davvero vitale, e andrebbe ben al di là della pur utile possibilità di dare un’immagine unitaria del sistema dei musei cittadini grazie a un coordinamento comune e alla bigliettazione unica. Restano però i dubbi sulla capacità, da parte della classe politica locale, di realizzare un simile progetto, al di là dei facili entusiasmi e della corsa ad allinearsi al Soprintendente per intestarsi le sue parole. Dubbi motivati da un lato dallo scarso grado di approfondimento fatto fin qui – sempre con le abituali, rare eccezioni – che invece si imporrebbe come necessario per un progetto che non si può immaginare in un’ottica standardizzata, ma deve essere elaborato attorno alle peculiarità del sistema culturale ed economico cittadino, per adattarsi a tutti portatori d’interesse esistenti sul territorio, coinvolgendoli. E dall’altro, anche da più grevi interessi economici, perché un sistema museale dotato di autonomia finanziaria e gestionale, e per questo libero di reinvestire i propri proventi su se stesso sarebbe una panacea per un settore culturale in forte carenza d’ossigeno, ma sottrarrebbe alla politica il controllo diretto su risorse, luoghi e persone.

La speranza – invero non troppa remota – è che i cittadini, ad ogni livello, dalle associazioni di categoria di commercianti e imprenditori sino agli studenti e alle famiglie, si rendano conto della straordinaria opportunità che la presenza di una Fondazione potrebbe costituire, in termini di flussi turistici, ma soprattutto di posti di lavoro, di indotto e, primo fra tutti, di qualità dell’offerta culturale per chi vive in città. A questo punto, non ci sarà più spazio per proposte raffazzonate o improvvisate, ma la politica cittadina dovrà mettersi al lavoro seriamente, identificando la soluzione migliore per ridare slancio e vigore al nostro sistema museale. Così anche Verona avrà – finalmente – la sua Fondazione dei Musei.

© RIPRODUZIONE RISERVATA